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May 13, 2022 dieta e nutrizione

Caffè e salute

Il caffè in Italia e in molti altri paesi, spesso non rappresenta solo un’abitudine, ma un vero e proprio rituale a cui è difficile rinunciare quando il medico ci consiglia di ridurne l’assunzione. Tuttavia, più che alla tazzina, dovremmo far attenzione al principio attivo della caffeina che è presente anche negli alimenti più inaspettati come ad esempio il cioccolato.

Quando siamo a dieta spesso il nutrizionista mette un limite al consumo di caffè per diverse ragioni.
In realtà Il caffè ha un contenuto calorico praticamente uguale a zero e si può bere tranquillamente anche durante una dieta ipocalorica, ma la caffeina in esso contenuta può avere controindicazioni.

Infatti, un consumo eccessivo di caffeina può comportare problemi di anomala frequenza cardiaca, aumenti di pressione, provocare una reazione infiammatoria o ancora un aumento della secrezione gastrica (con possibili irritazioni della mucosa) e negli individui particolarmente sensibili anche a basse quantità.

C’è un rapporto profondo e millenario tra l’uomo e le varie sostanze stimolanti come alcool, tabacco e caffeina ed il legame non è casuale. La caffeina, infatti, è chiamata in causa nella genesi di una moltitudine di effetti positivi e in parte negativi associati al consumo di caffè.

Non solo nel caffè! Quali sono gli alimenti ricchi di caffeina?

La caffeina è una sostanza naturale presente in diverse piante da cui si ottengono bevande e alimenti.
È il caso, ad esempio di:

  • Tè (da 28 a 150 mg/tazza a seconda del tipo di tè e del tempo di infusione)
  • Yerba Mate (85 mg/tazza)
  • Cola (35-40 mg/lattina)
  • Cioccolato (100 mg/100 gr)
  • Bevande energizzanti (100 mg/100 ml)
  • Guaranà (50 mg/tazzina)
  • Caffè espresso o moka (85 mg/tazzina)

per non parlare degli analgesici, dei cosmetici anticellulite, farmaci e integratori vari.

La quantità di caffeina che generalmente un individuo sano è in grado di sopportare senza problemi è nell’ordine dei 4-5 mg di caffeina per Kg di peso corporeo ideale.

In pratica, il consumo anche regolare di 4-5 tazzine di caffè al giorno generalmente non crea problemi agli adulti sani che seguono uno stile di vita equilibrato e che non consumano altri alimenti contenenti caffeina (tè, cioccolata, cola).

Perché bere caffè ci fa sentire subito più “svegli”?

L’abitudine di bere una buona tazzina di caffè quando siamo un po’ stanchi o quando dobbiamo svegliarci non è del tutto sbagliata perché ci fa sentire subito più svegli.

La sensazione in realtà è una reale conseguenza dell’assunzione di caffeina. Infatti, grazie ad una sua caratteristica molecolare, la caffeina ha la capacità di passare rapidamente la barriera emato-encefalica (una specie di parete virtuale presente nel cervello, preposta ad impedire il passaggio di molte molecole trasportate dal sangue).

Gli effetti della caffeina sul nostro organismo

La caffeina è il principio attivo psicoattivo più usato al mondo. La sua conformazione chimica la rende infatti idonea ad interagire con specifici recettori biologici che regolano la funzionalità del sistema cardiovascolare, endocrino e nervoso.

Anche se gli effetti di questa sostanza sono numerosissimi, la maggior parte di essi è dovuta agli effetti stimolanti che la caffeina esercita sull’intero organismo.

Il tratto intestinale, ad esempio, assorbe la caffeina molto rapidamente ed i picchi di concentrazione plasmatica si osservano dopo circa un’ora dalla sua ingestione. Il suo metabolismo, tuttavia, è molto rapido e decisamente superiore rispetto ad altri stimolanti come le anfetamine. I livelli plasmatici di caffeina si riducono del 50% dopo circa 3-6 ore dall’assunzione.

Ecco gli effetti della caffeina sul nostro organismo:

  • Sistema nervoso: eccitabilità, miglioramento dei riflessi e della capacità di concentrazione, azione analgesica
  • Sistema cardiocircolatorio e respiratorio (azione mediante l’interazione con i recettori biologici): grazie alla sua azione di antagonista competitivo nei confronti dei recettori dell’adenosina, la caffeina favorisce il rilascio di due ormoni chiamati adrenalina e noradrenalina. Le catecolamine favoriscono l’aumento del metabolismo corporeo, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e del numero di atti respiratori (aumentando così l’ossigenazione del sangue)
  • Sistema digerente: aumento della sintesi acida a livello gastrico, aumento della diuresi
  • Sulla pelle: se applicata sulla cute tramite cosmetici specifici (creme, gel e patch) risulta utile nel trattamento delle adiposità localizzate.

Posso bere il caffè durante la gravidanza?

Durante la gravidanza si tende a ridurre o eliminare completamente alimenti e bevande ricche di caffeina.
Questo perché la caffeina riesce ad attraversare anche la placenta e può essere presente nel latte materno. Durante gravidanza e alattamento è pertanto consigliabile ridurre fortemente l’assunzione di caffè e degli altri alimenti ricchi in caffeina.

Caffeina e sport: le bevande energetiche e gli integratori sono considerati doping?

La caffeina ha un’azione positiva sulle performance della maggior parte degli atleti.
Anche dosi tutto sommato moderate (200-400 mg) ingerite un’ora prima della competizione migliorano l’attenzione, la concentrazione e la resistenza. Considerata la grande variabilità individuale si consiglia comunque di sperimentarne l’utilizzo in allenamento prima di assumerla in gara.

Un atleta risulta positivo ai controlli antidoping quando la concentrazione di caffeina nelle sue urine supera i 0.012 mg/ml (= 12 mcg/ml). Non è facile stabilire con esattezza quale sia la dose di assunzione in grado di far superare tale soglia perché è piuttosto soggettiva. In genere si consiglia di non assumere più di 6-8 tazzine di caffè espresso o due tre tazze di caffè tradizionale, nelle tre ore precedenti la competizione.

Bere caffè fa dimagrire?

In virtù del loro elevato contenuto in caffeina, the e caffè vengono spesso consigliati per favorire il dimagrimento (in associazione ad una dieta corretta). Diversi studi hanno confermato questa proprietà, che trova una spiegazione logica nel suo effetto stimolante sul metabolismo basale.

In particolare 500 mg di caffeina (l’equivalente di 5 o 6 caffè) possono aumentare il metabolismo basale del 10-15%. Tradotto in termini più semplici un simile livello di assunzione permette di consumare un quantitativo di calorie maggiore al giorno, ovviamente in relazione alla peso e soprattutto alla massa muscolare del soggetto.

Quindi bere caffè non fa dimagrire, ma può aiutare ad accelerare il metabolismo.

La caffeina è un ingrediente caratteristico dei cosmetici per trattare la cellulite e le adiposità localizzate; applicata sulla cute favorisce la mobilizzazione dei trigliceridi dal tessuto adiposo sottocutaneo mediata dalla lipasi lipolitica.

Il caffè fa male? 

Per godere al massimo dei benefici della caffeina, senza disturbi del sonno o per la salute, la scienza suggerisce di non assumerne più di quella contenuta in 3-4 tazzine di caffè al massimo. Gli effetti di questa sostanza sono però molto soggettivi. Diversi studi genetici hanno identificato specifiche varianti genetiche che sembrano predisporre al metabolismo di caffeina (e quindi a un suo maggiore consumo).

Uno studio del 2016 ha dimostrato che le persone che assumono grandi quantità di caffeina sono anche quelle che geneticamente la metabolizzano con facilità. Ciò suggerisce che l’organismo umano sia in grado di autoregolarsi, e che non sia pericolosa perché ci manteniamo naturalmente all’interno dei nostri limiti.

Il discorso vale per le persone in buona salute: per chi ha problemi di pressione alta o di cuore, per i bambini e le donne in gravidanza, vale la regola di una maggiore cautela o anche dell’astensione.

In casi estremi, comunque, la caffeina può essere letale: 10 grammi di caffeina sono quasi sempre sufficienti a provocare reazioni che portano a un arresto cardiaco. Una tazzina di caffè, però, ne contiene meno di 100 milligrammi (0,1 grammi). Occorrerebbero quindi 100 tazzine di caffè in rapida successione per assumere una dose mortale di questa sostanza.

Gli effetti negativi della caffeina sull’organismo

Il caffè riduce l’assorbimento e la biodisponibilità di alcune sostanze:

  • riboflavina o vitamina B2
  • calcio
  • ferro
  • creatina

Un intossicazione da caffeina causata dalla massiccia assunzione di questa sostanza causa eccitazione smodata, nervosismo, insonnia e tachicardia.

La caffeina va assunta con moderazione in caso di:

  • esofagite e reflusso gastroesofageo (oltre ad aumentare il potere lesivo dei succhi gastrici la caffeina rilassa la “valvola” che impedisce la risalita del contenuto gastrico nell’esofago)
  • ulcera allo stomaco
  • anemia
  • ipertensione
  • tachicardia, aritmie e problemi cardiaci in genere
  • osteoporosi o in caso di fratture ossee

L’utilizzo prolungato di caffeina tende a smorzare gli effetti benefici che abbiamo visto prima e se assunta ad alte dosi, ne accentua quelli collaterali (acidosi, edema polmonare, allucinazioni).

Curiosità sul caffè e sulla caffeina 

La caffeina stimola il sistema nervoso. Dà, quindi, una sferzata di “energia”, accelerando i riflessi e aumentando la vigilanza. Attenzione, però: il caffè e le bevande energetiche a base di caffeina non possono annullare gli effetti dell’alcool. Anzi, berli ci dà la falsa illusione di aver recuperato la prontezza di riflessi, quando invece l’effetto sedativo dell’alcol è ancora prevalente, con un grave rischio per se stessi e per gli altri.

Il caffè non favorisce la digestione, anzi, se preso con molto zucchero o peggio ancora con panna o alcolici, la rallenta. Gli effetti stimolanti della caffeina possono comunque dare la sensazione di una digestione apparentemente migliore.

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Dott. Alessio Tosatto

Biologo Nutrizionista

Riferimenti:  Caffè, Caffeina, Alimentazione
Redattore: Dott. Alessio Tosatto


La vitamina “del sole”, un pre-ormone fondamentale per la salute delle nostre ossa e non solo!

Si chiama vitamina D, ma non possiamo considerarla strettamente una vitamina.
Il termine vitamina identifica le sostanze organiche indispensabili per la vita, che devono necessariamente essere introdotte con la dieta perché l’organismo non è in grado di sintetizzarle. La vitamina D, invece, viene sintetizzata tramite l’esposizione ai raggi del sole.

La vitamina D è un pre-ormone, che ha il compito di regolare il metabolismo del calcio e del fosforo.
Una carenza di vitamina D può minare la salute muscolare, espone al rischio di fratture e osteoporosi negli adulti o un difetto nello sviluppo dello scheletro, denti ed ossa nei bambini.

Abbiamo chiesto alla Dott.ssa Giulia Aliboni, biologo nutrizionista, perché la Vitamina D è così importante per la nostra salute e cosa dovremmo fare in caso di carenza.

Cos’è la vitamina D?

La vitamina D fa parte della famiglia delle vitamine liposolubili, viene accumulata a livello del fegato e viene rilasciata nel circolo sanguigno al bisogno, in piccole dosi.

La vitamina D può essere assunta con l’alimentazione (sotto forma di ergocalciferolo, D2) oppure essere sintetizzata direttamente dal nostro corpo, nel momento in cui la pelle viene esposta al sole (in questo caso è nella forma di colecalciferolo, D3).

La vitamina D, una volta assunta o prodotta, passa nel sangue e viene trasportata ai diversi tessuti: a livello del fegato viene trasformata in calcitriolo, la forma attiva.

A cosa serve la vitamina D?

La vitamina D ha suscitato molto interesse negli ultimi anni, proprio per le sue funzioni benefiche sulla salute.

La sua funzione principale, e anche la più conosciuta, è quella di preservare la salute delle ossa: questa vitamina è in grado di aumentare l’assorbimento di calcio, ferro, magnesio, zinco e fosforo a livello intestinale, evitando che si perdano con feci e urine. Questi minerali sono fondamentali per la costruzione del tessuto osseo, per cui avere livelli adeguati di vitamina D sembra possa contrastare l’osteoporosi ed il rischio di fratture o infortuni.

La vitamina D è un prezioso alleato del sistema immunitario

Ultimamente però, la funzione più ricercata della vitamina D è il suo prezioso contributo al funzionamento del sistema immunitario. Diversi studi hanno mostrato una minore incidenza ad infezioni virali e respiratorie nelle persone con livelli adeguati di vitamina D, mentre chi è in carenza tende ad ammalarsi di più. Questo perché la Vitamina D ha la funzione di aumentare la capacità delle cellule del sistema immunitario di riconoscere ed eliminare i microrganismi patogeni.

Inoltre, la vitamina D sembra essere in grado di modulare la risposta infiammatoria del corpo, controllando l’attivazione delle cellule del sistema immunitario e la produzione delle citochine pro-infiammatorie.

Alcune linee di ricerca hanno suggerito una possibile associazione tra omeostasi della vitamina D e malattie infettive, metaboliche, tumorali, cardiovascolari e immunologiche. Sono in corso numerosi studi sulla correlazione tra la severità dell’infezione da Covid-19 e i livelli di vitamina D.

Nonostante il crescente interesse da parte della comunità scientifica e la grande mole di studi prodotta oggi non esistono ancora basi solide e incontrovertibili per raccomandare il suo impiego in questi ambiti.

Cos’è la carenza di vitamina D?

Nel periodo invernale (da ottobre ad aprile) a causa della latitudine non favorevole in Italia, la produzione di vitamina D è significativamente ridotta, infatti la carenza di vitamina D è molto comune e si stima che le persone con carenza siano circa l’80% della popolazione.

La carenza di vitamina D può essere dovuta a diversi fattori:

  • Uno scarso apporto nutrizionale: una dieta ricca di alimenti industriali e processati è povera di Vitamina D. In ogni caso, la Vitamina D proveniente dall’alimentazione è circa il 10-20% del totale, per cui spesso non è sufficiente da sola
  • Uno scarso assorbimento intestinale: in caso di intestino infiammato e non in forma, anche se l’alimentazione è ricca di alimenti che contengono vitamina D, questa non verrà assorbita
  • Una scarsa esposizione al sole: la vita sedentaria ed i ritmi lavorativi sempre più impegnativi, uniti allo sviluppo della tecnologia, impediscono di passare al sole ed all’aria aperta il tempo necessario per sintetizzare quantità efficienti di vitamina D. I raggi solari sono sufficientemente potenti solo nei mesi estivi: in inverno quindi la carenza aumenta. Teniamo sempre in considerazione che non possiamo esporci al sole per troppo tempo senza protezione dai raggi UV.

Quali sono le conseguenze di una carenza di vitamina D?

Gli stati di carenza possono essere diversi e più o meno gravi.

La carenza grave di vitamina D nell’infanzia può portare al rachitismo, una patologia caratterizzata da una mineralizzazione ossea inadeguata, che rende l’apparato scheletrico fragile e spesso deformato. Nell’adulto, una grave carenza può portare all’osteomalcia, simile al rachitismo, ed all’indebolimento dei denti, con conseguente predisposizione a carie.

Ci sono poi stati di carenza meno evidenti, che non portano a rachitismo o osteomalcia, ma ad una serie di conseguenze e sintomi più difficili da isolare.

La carenza di Vitamina D tende ad aumentare con l’avanzare dell’età, in quanto diminuisce l’assunzione di alimenti ricchi in questa vitamina, a causa di difficoltà digestive. Inoltre, anche l’esposizione al sole viene meno. Recenti studi hanno rilevato un’associazione interessante tra la carenza medio-grave di vitamina D e la comparsa di alcune patologie, tra cui:

  • Infiammazione cronica e relative patologie
  • Diabete
  • Malattie autoimmuni
  • Malattie della pelle
  • Rischio di incidenza di neoplasie
  • Malattie respiratorie
  • Malattie neurologiche

Altri studi hanno dimostrato l’efficacia dell’integrazione di Vitamina D in pazienti anziani per la prevenzione del rischio di fratture ossee.

Un recente studio sul British Medical Journal ha messo in relazione la supplementazione di vitamina D con un effetto protettivo dal rischio di infezioni acute del tratto respiratorio (tosse, infezioni, laringite, bronchite, etc.).

La protezione dell’integrazione di vitamina D è risultata maggiore nelle persone che partivano da un livello di vitamina D sierica più basso (e quindi da uno stato di carenza).

I risultati migliori, inoltre, sono stati raggiunti con la somministrazione di vitamina D settimanale o giornaliera piuttosto che con dosi più alte e meno frequenti, il che probabilmente è dovuto a un maggiore assorbimento della vitamina D somministrata.

In quali alimenti si trova la vitamina D?

Gli alimenti ricchi in vitamina D sono diversi e si tratta per lo più di prodotti di origine animale (l’unica eccezione sono i funghi).

Tra questi troviamo l’olio di pesce (spesso consumato come integratore) ed alcuni tipi di pesce grasso (tra cui il salmone ed il pesce azzurro). Per quanto riguarda la carne, il tipo di carne che contiene più vitamina D è il fegato. Latte, burro e formaggi grassi mostrano piccole quantità di vitamina D, mentre le uova (soprattutto a livello del tuorlo) sembrano contenerne di più.

È importante in questo senso consumare prodotti di origine animale che provengono da allevamenti seri e che tengano in considerazione anche il benessere animale: se l’animale, ad esempio la gallina, ha passato tanto tempo al sole, le sue uova saranno più ricche di vitamina D. Lo stesso vale per carne, formaggi e pesce.

La vitamina D proveniente dall’alimentazione incide solo del 20% sui livelli di vitamina D riscontrabili in circolo.

I consigli della nutrizionista

La vitamina D è presente in alcuni alimenti ma non in concentrazioni sufficienti a soddisfare le richieste del nostro organismo.

Oltre ad esporci al sole quando possibile, in inverno ed in caso di carenza, dovremo ricorrere all’uso di integratori.

Esistono molti tipi di integratori ed anche in questo caso è opportuno chiedere al proprio medico o biologo nutrizionista che, valutando i livelli di vitamina D del singolo paziente, sarà in grado di suggerire un dosaggio ed un tipo di integrazione adatta ad ogni esigenza.

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Dott.ssa Giulia Aliboni
Biologo nutrizionista

Riferimenti: Vitamina D
Redattore: Dott.ssa Giulia Aliboni


La Menopausa può essere per molte donne motivo di ansia e preoccupazione, un periodo travagliato nel quale veniamo travolte da una molteplicità di avvenimenti che pensiamo possano avere conseguenze negative per la nostra salute.

In realtà è un momento fisiologico nel quale, come nella pubertà, il corpo femminile subisce una naturale trasformazione metabolico-ormonale al fine di preservare le funzioni vitali che potrebbero con l’avanzare dell’età mettere a rischio la nostra sopravvivenza.

I sintomi più frequenti durante la menopausa 

I sintomi che si sperimentano più frequentemente durante la menopausa, o in alcuni casi già dal periodo pre-menopausale, sono:

  • Climaterio
  • Insonnia
  • Aumento di peso
  • Cambiamenti emozionali
  • Calo della libido
  • Perdita o assottigliamento del capello
  • Pelle disidratata

Inoltre, attraverso esami di laboratorio, possono essere identificati:

  • Carenze di Vitamine e/o di Minerali
  • Alterazione del metabolismo degli Zuccheri (Insulino-resistenza, Diabete tipo 2)
  • Iper o ipotiroidismo

Menopausa e ormoni: un approccio plurispecialistico per ricostruire l’equilibrio ormonale

Tutti questi cambiamenti sono dovuti a modificazioni dei flussi ormonali che permettevano precedentemente il ciclo mestruale.

Gli Ormoni, insieme a Neuropeptidi, Citochine e Fattori di crescita, fanno parte delle cosiddette signaling-molecules, ovvero molecole che, comunicando fra loro, regolano tutte le funzioni corporee.

Ad oggi, grazie alla Ricerca Biomedica, è stato riconosciuto ad esse un ruolo chiave assoluto nella Prevenzione dello Stato di Malattia, tant’è che negli ultimi anni la Medicina sta progressivamente superando il concetto tradizionale della cura d’organo, per dar spazio ad una visione più unitaria e interdisciplinare in ottica preventiva.

La PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI) è infatti la Scienza che studia come Sistema Nervoso, Asse ormonale e Sistema Immunitario coordinino tutte le funzioni metaboliche.

Il principio base è il concetto secondo cui la Salute dipenda dall’Omeostasi, ovvero dall’equilibrio, fra questi tre universi paralleli. Un’alterazione a qualsiasi livello provoca conseguenze sugli altri due, innescando uno stato di disequilibrio che, se non ben arginato, potrebbe sfociare in malattia.

La Menopausa pertanto è uno degli esempi più evidenti di come un singolo cambiamento nell’assetto ormonale produca effetti multipli sull’organismo e per questo motivo, spesso, si rende necessario un approccio plurispecialistico per coordinare la ricostruzione di un nuovo equilibrio.

I cambiamenti ormonali che influiscono sullo stato di salute della donna in menopausa

Un importante cambiamento ormonale è la trasformazione degli estrogeni in estrone che rappresentano la causa  della trasformazione biologica dell’organismo che porta all’invecchiamento dei tessuti rendendoli più  densi, fibrosi, il seno e l’utero sono i più  colpiti.

Da alcuni anni e’ possibile determinare la quantità di estrone prodotto grazie ad un esame che si ottiene  dalla raccolta delle urine del mattino, l’esame in questione si chiama Estroprofile.

Grazie a questo esame possiamo sapere se si stanno producendo ormoni che ci faranno invecchiare prima e con le sofferenze tipiche della menopausa, e prescrivere una terapia personalizzata in grado di riequilibrare l’assetto ormonale.

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Menopausa ed alimentazione: il cibo come strumento per migliorare il proprio stato di salute in menopausa

Da un punto di vista Nutrizionale, l’obiettivo è innanzitutto quello di garantire la continuità funzionale di tutti i sistemi che con l’avanzare dell’età potrebbero ridurre la loro efficienza fino a diventare insufficienti a garantire la Salute della paziente.

È necessario dunque che, prima di formulare un Piano Nutrizionale, il professionista verifichi opportunamente lo Stato di Salute della donna attraverso un’accurata anamnesi, l’analisi della composizione corporea e, ultima ma non meno importante, la presa visione di esami di laboratorio aggiornati.

L’anamnesi ha lo scopo di comprendere la Storia del Peso, situazioni attuali o pregresse di Patologie che potrebbero interferire con l’obiettivo che si vuole ottenere e l’accertamento delle Condizioni Sintomatologiche presenti. Importante è anche comprendere lo Stile di Vita della persona e le sue Abitudini Alimentari.

L’analisi della composizione corporea è un esame che ha lo scopo di individuare alterazioni tra il comparto liquido (idratazione) e il comparto solido (massa grassa e massa muscolare) del paziente.

Menopausa e dieta: perché in menopausa cambia la composizione corporea?

Nella donna, soprattutto dopo la Menopausa, possono verificarsi incrementi della frazione liquida (ritenzione idrica) a discapito della massa magra. Il rischio di sarcopenia (perdita di massa muscolare) è tipico del paziente sopra i 50 anni.

Verificare e monitorare nel tempo lo Stato della Composizione Corporea consente di adeguare e/o correggere il Piano Nutrizionale garantendo sempre l’apporto necessario di tutti i macro e micronutrienti di cui l’organismo ha bisogno per mantenere il turn-over cellulare.

A tal proposito, il Nutrizionista può suggerire l’introduzione di una moderata attività fisica, che contribuisce sia al miglioramento del tono muscolare e di tutto il sistema osteo-articolare, che all’attivazione metabolica.

Nell’ottica di contrastare un aumento di peso, l’attività fisica si rende necessaria per implementare il dispendio energetico, così da favorire anche un abbassamento dei livelli glicemici, che possono essere causa di accumulo di grasso viscerale a livello dell’addome con aumentato rischio di patologie metaboliche (diabete, malattie cardiovascolari e neurodegenerative).

Carenze di vitamine e minerali in menopausa, cosa rischio?

Gli esami di laboratorio servono ad identificare possibili carenze di vitamine e minerali. Nella donna una fra tutte è la carenza di Vitamina D che è causa diretta di ridotta fissazione del Calcio nelle ossa, con conseguente rischio di fragilità, osteopenia o addirittura osteoporosi.

Un esame integrativo importante da eseguire per verificare lo stato della salute ossea è la Mineralometria Ossea Computerizzata (MOC). La Vitamina D è essa stessa considerata un ormone e, proprio per questo, si integra perfettamente nel cross-talking con gli altri sistemi della PNEI.

Le conseguenze di una carenza di Vitamina D si ripercuotono dunque indirettamente su altri sistemi. Infatti, essa svolge un importante ruolo nella soppressione infiammatoria promuovendo l’espressione di citochine antinfiammatorie. In particolare ne è stata evidenziata la sua funzione in alcune patologie autoimmuni, come il lupus eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide. Inoltre, studi scientifici recenti hanno confermato effetti indiretti della vitamina D nella patofisiologia del Diabete Tipo 2.

Carenze di minerali tipiche della menopausa sono invece quelle legate a Calcio, Magnesio, Zinco e Selenio. Del primo abbiamo già parlato, ma possiamo aggiungere che, il Calcio oltre a combattere l’osteoporosi, esso riveste un ruolo importante per l’apparato cardiocircolatorio, contrastando l’aumento di colesterolo e stabilizzando il ritmo cardiaco.

Il Magnesio e lo Zinco supportano almeno 300 attività enzimatiche. Una loro carenza provoca disturbi sia in età fertile (cefalea, dismenorrea, sindrome pre-mestruale), che durante la Menopausa, in particolare acutizzando fenomeni quali climaterio, insonnia, stanchezza e irritabilità.

Un’adeguata concentrazione di questi metalli stimola la produzione di serotonina, un’endorfina che agisce su recettori specifici del cervello, svolgendo azione analgesica, antidepressiva e stabilizzante del tono dell’umore.

Il Selenio infine è utile per contrastare i processi ossidativi e prevenire l’invecchiamento delle cellule promuovendo l’attività del Coenzima Q10.

Alimentazione in menopausa: quali sono i cibi da preferire?

In una Dieta bilanciata, per garantire un corretto apporto di questi minerali, il Nutrizionista può suggerire l’utilizzo di alcuni alimenti come ad esempio Legumi, Cereali ad alto contenuto di fibre e Cacao, che sono fonti primarie di questi e altri micronutrienti

Terapie naturali contro i disturbi della menopausa

In ottica PNEI, anche la Fitoterapia può essere un ulteriore sostegno per contrastare i fenomeni tipici della Menopausa. Alcune piante infatti contengono fitocomposti efficaci nel contrastare le fluttazioni estroprogestiniche ed i relativi sintomi caratteristici della Menopausa.  Fra queste, la Salvia, l’Erba Medica, il Trifoglio Rosso e la Dioscorea Villosa. Quest’ultima in particolare è ricca di Diiro-epiandrosterone (DHEA), la cui diminuzione è fortemente correlata all’avanzare dell’età, soprattutto nella donna.

In conclusione, la Menopausa non è altro che una transizione fisiologica che il corpo femminile subisce al termine dell’età fertile. Come tutte le alterazioni dei tre Sistemi (Nervoso, Ormonale, Immunologico), è un momento delicato poiché i cambiamenti che ne derivano possono, se non ben coordinati, far pendere l’ago della bilancia omeostatica verso una o più patologie.

Il Nutrizionista può essere un valido supporto che, sulla base dell’anamnesi e delle evidenze analitiche, può suggerire un Piano Nutrizionale adeguato e qualora si rendesse necessario, può associare un’opportuna supplementazione mediante multivitaminici, prodotti integrativi, nutraceutici e fitoterapici che contribuiscono a perfezionare la posologia dettata dalla Dieta.

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Dott.ssa Valentina Vielmi

Biologa Nutrizionista

Riferimenti:  Menopausa, Salute della Donna, alimentazione in menopausa
Redattore: Dott.ssa Valentina Vielmi


August 17, 2015 Newsletter

Per molti anni il glutine è stato correlato sul piano patologico in particolare ad una sola malattia, denominata malattia celiaca, caratterizzata da sintomi addominali quali meteorismo, diarrea, flatulenza, distensione addominale, ma anche extraintestinali, quali calo di peso, anemia, alopecia ed associata a tiroiditi, diabete, malattie autoimmuni. Pertanto, in assenza di una chiara diagnosi di malattia celiaca, che si esegue attraverso la determinazione nel siero della presenza degli anticorpi anti-transglutaminasi tissutale e la dimostrazione di una alterata morfologia dei villi intestinali, non era necessario proibire il consumo di prodotti alimentari privi di glutine.

Tuttavia, sembra che le cose non stiano proprio in questi termini, in quanto negli ultimi anni è stata segnalata la possibilità che anche soggetti non affetti da malattia celiaca possano subire effetti tossici dal glutine. In poche parole, una vera e propria intolleranza al glutine, diversa dalla Malattia Celiaca, verosimilmente definibile più correttamente “ipersensibilità al glutine” o Gluten Sensitivity (GS), come è chiamata dagli anglosassoni.

Malattia Celiaca e Gluten Sensitivity non solo sono diverse sul piano genetico, ma anche relativamente al coinvolgimento del sistema immunitario. In particolare, al contrario della malattia celiaca, la Gluten Sensitivity non si associa a lesioni intestinali, non stimola reazioni abnormi del sistema immunitario, non si associa ad alterazioni rilevabili degli altri organi.

Che la gliadina contenesse una porzione potenzialmente tossica nella sua molecola è un punto noto da diverso tempo. Tuttavia, la maggior parte delle persone presenta una tolleranza nei confronti di tale proteina, attraverso un meccanismo di protezione che previene l’attivazione del sistema immunitario e mette al riparo le cellule intestinali, e quindi i villi. Il paziente con malattia celiaca, invece, reagisce nei confronti della gliadina attivando il sistema immunitario, non essendo in grado di tollerarla e, quindi, sviluppa le lesioni intestinali tipiche ed i sintomi di questa malattia.

In soggetti con gluten sensitivity sono state rilevate alcune alterazioni quali un leggero aumento dei linfociti intraepiteliali (di severità marcatamente inferiore rispetto ai celiaci) ma in assenza delle alterazioni dei villi, che appaiono assolutamente normali; in alcuni risultano positivi gli anticorpi anti-gliadina di classe IgG, ma risultano negativi altri markers sierologici di malattia celiaca, quali gli anticorpi anti-transglutaminasi e gli anticorpi anti-endomisio.

Il quadro clinico di questa condizione è estremamente variegato, potendo spaziare da sintomi addominali, quali meteorismo con distensione addominale, alterazioni dell’alvo, ad esempio  diarrea, calo di peso, dolori addominali sia crampiformi che subcontinui, associati a sintomi extraintestinali, quali cefalea, difficoltà alla concentrazione, stanchezza, irritabilità. Il quadro clinico di tale condizione spesso si confonde con quello della sindrome dell’intestino irritabile, con la quale condivide alcuni aspetti caratteristici della attività motoria intestinale.

Articolo scritto dal Prof. Di Stefano,OLYMPUS DIGITAL CAMERA Dirigente Medico presso la Clinica Medica 1 della Fondazione IRCCS Policlinico “S.Matteo” di Pavia. I principali interessi di ricerca sono rappresentati dagli aspetti clinici, fisiopatologici e terapeutici dei disordini funzionali dell’apparato gastrointestinale, in particolare la sindrome dell’intestino irritabile, la dispepsia funzionale, la malattia da reflusso gastroesofageo; delle sindromi da malassorbimento intestinale, in particolare la malattia celiaca, il morbo di Whipple e l’intolleranza al lattosio e le loro complicanze sistemiche, quali l’osteoporosi. Ha svolto un periodo di formazione all’estero presso il Centre for Gastroenterological Research dell’Università di Leuven, diretto dal prof. Jan Tack, occupandosi dello studio della motilità tonica e fasica dell’apparato gastrointestinale e dei meccanismi di regolazione. E’ reviewer delle principali riviste di gastroenterologia. L’attività scientifica ha prodotto numerose pubblicazioni su riviste internazionali raggiungendo un Impact Factor cumulativo di 300

Il prof. Di Stefano collabora con il nostro Istituto di Medicina Biologica

 


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