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April 4, 2014 Newsletter

Recentemente, alcuni ricercatori hanno evidenziato l’esistenza di una patologia fino a pochi anni fa sconosciuta e che, solo da poco, ha avuto un riconoscimento ufficiale. Mi riferisco alla Systemic Nickel Allergy Sindrome (SNAS). La clinica della SNAS è essenzialmente caratterizzata dalla comparsa di sintomatologia a carico della cute, con eczema da contatto anche in regioni del corpo che invece normalmente non entrano in contatto con il metallo.

Precedenti patch test (test allergologici) positivi per il nichel e l’ orticaria talora associata ad angioedema, disturbi rilevanti a carico del tratto intestinalecon dispepsia, meteorismo, coliche addominali, alvo alterno ( stipsi e dissenteria ), vomito e sintomi da reflusso gastroesofageo. I sintomi si presentano in occasione dell’ingestione di cibi ad alto contenuto di nichel. Pensate che questi sintomi, noi medici clinici attenti al problema delle intolleranze alimentari, li abbiamo osservati da diversi anni e li abbiamo correlati con disturbi legati all’ingestione di alimenti non tollerati. Ma certo, direste voi! Ma nessuno in passato si sarebbe sognato di descrivere tali sintomi e correlarli con il contenuto di nichel negli alimenti, per i soggetti particolarmente sensibili.

La diagnosi risulta più agevole se i sintomi compaiono dopo alcuni anni, nei soggetti con dermatite da contatto ( eczema da contatto ).La prima fase della diagnosi di SNAS è l’anamnesi, la raccolta attenta dei sintomi, le modalità, la frequenza e la durata dei disturbi, la relazione con i cibi e l’introduzione dei cibi ad alto contenuto di nichel, può orientare la diagnosi.

L’Istituto di Medicina Biologica e il suo staff da tempi non sospetti,si occupa di intolleranze alimentari e in particolar modo di intolleranza al nichel e al glutine. La collaborazione con un prestigioso Ente ospedaliero il San Matteo di Pavia, che da anni ci sostienenel campo dell’allergia e intolleranza alimentare, ci ha permesso di raccogliere dati che riguardano le intolleranze alimentari. La diagnostica clinica e di laboratorio è molto importante per porre una diagnosi. Un test determinante per al diagnosi, presente in 52 paesi del mondo, è il Test ALCAT®( Antigen Leucocitary Cellular Antibody Test ). È un test leucocito tossico, computerizzato e automatizzato che si esegue su sangue venoso, quindi occorre un prelievo di sangue e si analizzano quote di alimenti che reagiscono con le cellule del sistema immunitario innato, i Granulociti Neutrofili.

Le risposte che ne derivano, sono reazioni di tre gradi di importanza, dal grado 1,il meno grave, al grado tre, il più grave. Il test ALCAT®permette di ottenere una diagnosi di sensibilità agli alimenti, ponendo un ragionamento di gruppi alimentari che corrispondono agli alimenti risultati positivi al test. Dopo la risposta al test ALCAT®, segue una dieta a rotazione, eliminando quasitotalmente gli alimenti risultati intollerati con un grado di reattività medio alta, lasciando due o tre momenti di dieta libera durante al settimana, in modo da permettere una sorta di recupero del grado di tolleranza, che in qualche modo il paziente ha ridotto nel tempo. Il gruppo di collaboratori e medici, coordinati da IMBIO, ha da tempo raccolto diversi dati, sulle possibili reazioni dovute al cibo, come sostanza considerata “estranea” all’organismo e, messa in relazione con la comparsa di stati infiammatori. Ii sintomi che spesso sono raccolti dai nostri collaboratori, sono i più frequenti, colite, stipsi o dissenteria, mal di testa emicrania, dermatite non allergica fino all’orticaria fino all’artrite.

È da notare come i sintomi regrediscono, dopo una dieta a scarso contenuto di nichel, seguita per alcune settimane. Qualsiasi stato infiammatorio, non dovuto a cause specifiche o malattie diagnosticabili clinicamente e con analisi di laboratorio, è da ricondurre ad uno stato di “sollecitazione” infiammatoria dovuta dal cibo.
Di seguito potete osservare la raccolta dei dati da parte della dottoressa Cecilia Pedroni, del Master in Nutrizione Umana, Univ. Di Pavia e collaboratrice di IMGEP ( Istituto di Medicina Genetica Preventiva, di Milano ), coordinato dalla Dottoressa Carassai Paola, evidenzia come i dati sono a favore di un’ aumento della sensibilità al nichel degli alimenti.
Nei grafici che seguono viene mostrata la distribuzione dei pazienti IMGeP che hanno eseguito l’ALCAT TEST suddivisi per i Gruppi Alimentari di intolleranze: nichel, salicilati, lieviti, latte e derivati, frumento e nessuna/altro.

Recentemente abbiamo partecipato alla stesura di un libro “Nichel. L’intolleranza? La cuciniamo”  Edito da Silvana Editore, con Tiziana Colombo, scrittrice e cuoca provetta. Nel testo si racconta il percorso clinico e diagnostico dell’intolleranza al nichel in modo piacevole e leggero, fino ad arrivare alla parte più importante, le 111 ricette, di piatti prelibati, con foto che li descrivono, tutte in originale che permettono di cucinare prelibatezze di alto livello, sena alimenti contenenti nichel. Una specie di guida dell’intolleranza al nichel, che ha colmato un vuoto, dando l’opportunità di avere una soluzione al problema intolleranza.

Il gruppo di lavoro di IMBIO e IMGEP è da sempre attento al problema intolleranza e alla ricerca di nuovi sistemi di diagnosi, che ci permettono di trovare al causa e la soluzione ai problemi legati alle intolleranze alimentari.

 



March 26, 2014 Newsletter

Un’alimentazione molto ricca di cibi fritti aumenta il rischio di obesità, ma anche la predisposizione genetica gioca un ruolo di primo piano. Lo affermano, nella rivista British medical journal Qibin Qi, i ricercatori della Harvard school of public health e del Brigham and women’s hospital e Harvard medical school a Boston in seguito allo studio condotto per valutare se ci fosse un legame tra consumo di cibi fritti e predisposizione genetica nel determinare l’indice di massa corporea.

«Oggi è noto che uno stile di vita poco sano porta all’aumento del peso corporeo, ma sembra anche che gli individui rispondano in modo diverso agli stimoli obesogenici ambientali in base al loro background genetico.
Oggi, sappiamo molto bene come si correlano le interazioni tra geni e fattori legati alla dieta e allo stile di vita nel determinare l’obesità. E per cercare di dimostrare questa ipotesi i ricercatori statunitensi hanno coinvolto oltre 37.000 persone – sia uomini sia donne – in uno studio basato su questionari alimentari che valutavano il consumo di cibo fritto e su un particolare indice di rischio genetico che misurava la predisposizione all’obesità.

Le persone che hanno preso parte allo studio sono state suddivise in tre categorie in base al loro consumo abituale di cibi fritti (meno di una volta a settimana, da una a tre volte a settimana e più di quattro volte a settimana), mentre per il rischio genetico è stato assegnato un punteggio compreso tra 0 e 64 in base a 32 varianti di SNPs – polimorfismi a singolo nucleotide – associati all’obesità. «Il primo dato è che le persone con un rischio più alto avevano un indice di massa corporea maggiore e lo stesso succedeva a chi assumeva le più alte quantità di fritto».

E andando più a fondo si osserva che, per chi mangia cibi fritti 4 o più volte a settimana, l’effetto negativo della dieta poco sana sull’aumento di peso è doppio se il rischio genetico è alto rispetto a quando tale rischio è basso.
«In pratica la genetica influenza l’effetto di una dieta errata».

Come spiegano Qi e colleghi, lo studio sottolinea l’importanza di ridurre i cibi fritti per prevenire l’obesità, soprattutto nelle persone geneticamente predisposte. Lo studio della genetica, in particolare la Nutrigenomica, ci aiuta nel capire chi ha maggiori probabilità di andare incontro a patologie legate all’alimentazione e come porvi rimedio.
La Nutrigenomica ci aiuta ad individuare le persone maggiormente a rischio di malattie legate al metabolismo degli zuccheri, dei grassi animali, all’alcol, i soggetti sensibili al glutine o predisposti alla celiachia, al lattosio. Il diabete tipo due, difetti del controllo dello stress ossidativo, la predisposizione all’ipertensione su base metabolica e altro ancora.

La prevenzione nutrizionale ci aiuta a ridurre il numero dei malati per diabete e patologie cardiache, previsti nei prossimi venti anni.

BMJ 2014; 348 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.g1610
BMJ 2014; 348 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.g1900



March 4, 2014 Newsletter

La mancanza di tempo e lo stile di vita sempre più frenetico portano spesso alla scelta di prodotti da forno di tipo industriale, che spesso utilizzano,per la levitazione dei loro impasti, composti chimici.

Il LIEVITO CHIMICO è infatti costituito da sostanze che, in determinate condizioni, reagiscono tra di loro o con altri componenti dell’impasto per generare gas (quasi sempre anidride carbonica) che permette, come nel caso della lievitazione da lievito di birra, l’espansione dell’impasto.

I lieviti chimici più diffusi sono: CARBONATO DI SODIO, POTASSIO, AMMONIO E MAGNESIO (E500, E 501, E503, E504), TARTRATO DI SODIO (E335), TARTRATO DI POTASSIO (O CREMOR TARTARO, E336), ACIDO TARTARICO (E 334) e

GLUCONE DELTA LATTTONE (E575). Si tratta di composti chimici presenti anche in natura ma che, nella maggioranza dei casi, vengono prodotti per sintesi chimica.

Queste sostanze, per legge, sono classificate come ADDITIVI e sono tecnicamente definite “AGENTI LIEVITANTI”. La loro caratteristica è quella di generare gas molto più velocemente dei loro “parenti” biologici e quindi di risultare più adatte alla preparazione di dolci industriali.

L’azione chimica di questi agenti, tuttavia, non avviene solo nell’impasto ma continua anche nello stomaco e successivamente nell’intestino, favorendo PROCESSI DI FERMENTAZIONE che creano i fastidiosi effetti di GONFIORE, METEORISMO e AEROFAGIA, dati dalla presenza di CO2, che compaiono puntuali al termine di un’abbuffata.

Dagli ultimi studi compiuti dal POLICLINICO SAN MATTEO di PAVIA utilizzando il test ALCAT

l’unico esame sulle intolleranze riconosciuto in America dalla FDA (Food and Drug Administration)

  • è stato possibile rilevare come, nel corso del 2013, tutti coloro che presentavano un’intolleranza ai LIEVITI nei mesi di NOVEMBRE e DICEMBRE mostravano un’alta positività al LIEVITO CHIMICO. Tale risultato è facilmente comprensibile se si tiene conto del grande consumo di dolci e prodotti da forno LIEVITATI CHIMICAMENTE che vengono consumati durante le vacanze natalizie. Tale situazione crea le condizioni ottimali per lo sviluppo di CANDIDA abicans che, nel mese di GENNAIO, raggiunge il picco di intolleranza (dati ALCAT dall’Ospedale San Matteo di Pavia, anno 2013). La presenza di questo fungo, oltre a provocare gli sgradevoli e conosciuti effetti, predispone anche all’insorgenza di INTOLLERANZE ALIMENTARI a causa dell’aumentata permeabilità della mucosa intestinale (DISBIOSI).

Per scongiurare tale situazione al ritorno delle vacanze, quindi, cercate di evitare, per quanto possibile, dolci e prodotti da forno lievitati chimicamente ed approfittate delle ferie per cucinare dolci fatti in casa con lievito madre, lasciando i “chimici dei dolci” nei loro asettici barattoli.

Articolo di Davide Iozzi, Biologo nutrizionista, esperto in nutrizione umana, collaboratore dell’Istituto di Medicina Genetica Preventiva (I.M.Ge.P.) di Milano.



January 8, 2014 Newsletter

Ebbene sì, è possibile che qualcuno tra noi possa soffrire di una serie di fastidiosi e persistenti disturbi che trovano come causa un’intolleranza agli alimenti appartenenti alla famiglia dei fughi. E non è difficile immaginarne le cause; basterebbe avere come abitudine mangiare cibo cinese qualche volta a settimana, e magari associare a ciò un consumo eccessivo di prodotti lievitati, scegliendo spesso una panetteria nella pausa pranzo, per sentirsi gonfi, irritati, soffrire di nausea, mal di testa e magari avere strane eruzioni cutanee.

Questo è solo un esempio per mostrare come comportamenti alimentari monotoni possano essere determinanti nell’insorgenza delle intolleranze alimentari, in particolare quelle ai funghi e ai lieviti; questi ultimi, da una recente analisi ottenuta dai referti ALCAT Test di IMGeP degli ultimi tre anni (*), sono risultate le intolleranze, dopo quella al Nichel più diffuse tra i nostri pazienti. Si pensa quindi che i soggetti intolleranti ai prodotti lievitati lo siano anche ai funghi poiché entrambi gli organismi sono eucariotici e fanno parte dello stesso ramo evolutivo; pertanto il nostro sistema immunitario è facile che riconosca e reagisca allo stesso modo nei confronti dei cibi appartenenti ad entrambi i gruppi proprio perché vicini biologicamente.

IMGeP- Istituto di Medicina Genetica Preventiva di Milano per poter meglio identificare questo tipo di reazioni avverse e valutarne più differenziatamente l’origine, ha voluto realizzare un nuovo pannello ALCAT 25 + 5. Questo nuovo Test ALCAT aggiunge, ai classici 25 alimenti del Pannello ATSP 25, cinque rappresentanti della famiglia dei Funghi. Il nostro ATPS 30 speciali Funghi potrà anche essere sfruttato per vagliare e confermare la correlazione tra intolleranza ai lieviti e ai funghi.

Perché proprio l’intolleranza ai funghi? Come dicevamo la moda del cibo cinese e la diffusione di alcune sostanze alla base di ormai molti integratori utilizzati per varie problematiche (prestazione sportiva, rafforzamento delle difese immunitarie..) potrebbero, nel complesso, arrivare ad accumularsi nel nostro organismo tanto da provocare intolleranza.

Senza nulla togliere alle proprietà straordinarie di alcuni estratti di funghi himalayani e alla cultura e al fascino della cucina orientale, sicuramente ricca di cibi dalle alte qualità organolettiche, che non merita altro che essere apprezzata e provata come le altre cucine di tutto il mondo; il nostro scopo non è certo negativizzare né l’integrazione né il cibo etnico. Il punto non sono gli ingredienti, le sostanze e i cibi di origine cinese, il punto è affidarsi troppo spesso a soluzioni alimentari veloci, comode, abbondanti ed economiche ma a lungo termine deleterie.
In conclusione, il messaggio importante è: “verifichiamo”, cosa ci sta intossicando? Troviamo ciò che non funziona nelle nostre abitudini alimentari, “disintossichiamoci” e “impariamo” memori dei malesseri sofferti che varietà e qualità dei cibi devono rientrare nella nostra quotidianità.

 



La terapia con campi magnetici è tradizionalmente usata per patologie ortopediche; negli ultimi anni alcuni studi hanno dimostrato l’utilità anche in altre patologie ed in particolare quelle di pertinenza neurologica.

Nel nostro Istituto dal 2001 il trattamento con campi elettromagnetici di bassa ed alta frequenza viene utilizzata singolarmente o in associazione con trattamenti farmacologici in varie situazioni. Lo scopo della relazione è di illustrare tre casi clinici in cui la terapia con campi elettromagnetici a frequenza ultrabassa si è dimostrata efficace; la tecnologia utilizzata è la risonanza ciclotronica endogena.

Per tutti i casi lo schema terapeutico prevedeva 2 frazioni settimana della durata di 30 minuti ciascuna per un totale di 12 sedute con una valutazione clinica a metà trattamento.

Primo caso: uomo di 41 anni con diagnosi radiologica di sclerosi multipla (luglio 2003-lesioni all’encefalo e midollo spinale); gli esami evidenziarono alti valori di stress ossidativo.

La sintomatologia consisteva in dolori in sede cervicale e lombare e un moderato deficit motorio dell’arto inferiore destro.
Trattamento terapeutico: trattamento con prodotti antiossidanti e terapia con campi elettromagnetici con frequenza variabile da 10 a 30 Hz e intensità variabile tra 10 e 25 microTesla.
Al termine del trattamento si era verificato un significativo miglioramento dei sintomi; la RM di controllo ha evidenziato una riduzione del numero e dimensioni delle lesioni attive. Tale quadro si mantiene anche alla ultima RM(febbraio 2007)

Secondo caso: donna di 23 anni con quadro radiologico (RM 2005)di sclerosi multipla e lesioni encefaliche e midollari con importanti deficit motori neurologici;gli esami evidenziarono alti livelli di stress ossidativo; la paziente era in cura con Interferone da un anno con malattia stabile.
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Trattamento terapeutico:campi elettromagnetici con frequenza variabile tra 10 e 20 Hz e intensità variabile tra 20 e 30 microTesla;come terapia di supporto trattamento energico con prodotti antiossidanti.
L’ultima RM(dicembre 2006) ha mostrato una significativa riduzione delle lesioni ed in particolare modo di quelle midollari.
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Terzo caso: uomo di 70 anni con broncopneumopatia cronica severa( stadio III Gold) in cura da alcuni anni con broncodilatatori e steroidi associata disfunzione sistodiastolica ventricolare sinistra.
I sintomi più evidenti erano la dispnea ed episodi continui di apnea notturna che limitavano molto la qualità di vita.
Dopo cinque sedute con campi elettromagnetici il paziente riferiva un notevole miglioramento della quantità e qualità del sonno e seppure meno evidente anche della dispnea.
La frequenza era di 40-45 Hz con una intensità tra 70 e 90 microTesla.
Alla fine del ciclo di terapia era ben evidente un miglioramento dei parametri respiratori ed anche della qualità di vita. La malattia era radiologicamente stabile.

In tutti e tre i casi riportati l’aggiunta di campi elettromagnetici al trattamento farmacologico ha evidenziato un miglioramento della qualità di vita con quadro radiologico di regressione in 2 casi e stabilità nel terzo.
In considerazione degli aspetti prognostici,psicologici e socioeconomici di queste patologie a nostro avviso è un risultato importante.
Oltretutto il trattamento con campi elettromagnetici è stato ben tollerato e senza effetti collaterali.
Pertanto riteniamo che la terapia con campi elettromagnetici a frequenza ultrabassa possa rappresentare una valida opzione in associazione con altri presidi in una strategia terapeutica integrata; inoltre la possibilità di eseguire eventualmente il trattamento a domicilio risulta particolarmente interessante.

Comunque,in futuro è auspicabile la costituzione di adeguati studi clinici controllati al fine di approfondire in maniera sempre più dettagliata gli aspetti concernenti i parametri tecnici,la sinergia con altre terapie e l’interazione con tessuti biologici.

del Prof. Giuseppe di Fede e Marco G. M. Mancuso

da ELECTROMAGNETIC BIOLOGY AND MEDICINE Volume 26, Numero 4 Anno 2007



October 30, 2012 Newsletter

Dopo aver presentato pregi e difetti di “zucchero bianco, di canna e fruttosio“, (Come dolcificare nel modo migliore? – parte 1) proseguiamo la panoramica sui dolcificanti naturali e sintetici valutando: saccarina, aspartame, sucralosio e stevia.

SACCARINA: La saccarina è stata il primo dolcificante artificiale. La parola deriva dal latino e significa zucchero. È disponibile in tre forme: Acido Saccarinico, Saccarina di Sodio, Saccarina di Calcio. Quella più usata è la saccarina di sodio.

Ha un potere dolcificante 300 volte superiore al saccarosio, ma presenta un retrogusto leggermente amaro e metallico, generalmente considerato sgradevole specialmente ad alte concentrazioni. A differenza di simili composti di sintesi (es. aspartame), la saccarina è stabile al calore anche in ambiente acido, è inerte rispetto agli altri ingredienti alimentari e non richiede precauzioni di conservazione. Nei paesi in cui l’uso di entrambi i composti è consentito, la saccarina è spesso associata al Ciclammato in proporzioni 1:10 per correggere i citati difetti di retrogusto; è spesso associata anche all’aspartame.

Nel 1878 fu scoperta casualmente in un laboratorio, dove si lavorava il catrame. Fu una scoperta importante, soprattutto per i diabetici. Infatti, la saccarina transita attraverso l’apparato digerente senza alterare i livelli sanguigni d’insulina e in pratica senza fornire alcuna energia all’organismo.

Preoccupazione sulla potenziale nocività e cancerogenicità si espresse massimamente nel 1977, quando fu pubblicato un lavoro che comunicava l’aumento d’incidenza del cancro alla vescica in ratti alimentati con alte dosi di saccarina. Al momento, viste le bassissime quantità di utilizzo, non è stata dimostrata per tali quantità nessuna correlazione. La saccarina è impiegata in una grande varietà di cibi, bevande e cosmetici.

Non è metabolizzata dal nostro organismo; una volta assunta, è rapidamente assorbita (circa 90%) e come tale eliminata con le urine, senza subire modifiche. Non influenza i livelli glicemici e non fornisce alcuna energia all’organismo. Non favorisce la carie e quindi consigliata nelle diete ipocaloriche e nei diabetici. Restano, tuttavia, molti dubbi sulla tossicità, pur esistendo tantissimi studi che ne confermano la sicurezza per dosi di consumo normali. I dubbi circa il coinvolgimento della sostanza nei confronti del cancro alla vescica restano. Molta prudenza per l’uso in gravidanza, data la capacità di attraversare la placenta.

ASPARTAME: L’aspartame è un altro dolcificante artificiale. E’ composto da due aminoacidi, l’acido aspartico e la fenilalanina, più il metanolo che esterifica l’estremità carbossilica della Fenilalanina.

Pur avendo le stesse calorie dello zucchero, il suo potere dolcificante è 200 volte superiore; per questa ragione ne servono piccole quantità per dolcificare cibi e bevande.

Le persone che soffrono di fenilchetonuria (hanno difficoltà nell’assimilare la fenilalanina), devono limitare l’assunzione di questo dolcificante perché è fonte di fenilalanina.
L’utilizzo come dolcificante alimentare, con la sigla E 951, è autorizzato in dose massima giornaliera di 40 mg./Kg di peso. Esistono molte diatribe sul ruolo cancerogeno dell’aspartame (ci sono numerosi studi in merito). Nel 1980, un’inchiesta decretò la mancanza di dati sufficienti a confermare il legame tra aspartame e tumori al cervello.

Tuttavia, fu negata una nuova autorizzazione all’uso, in attesa di nuovi dati. Altri studi evidenziarono l’aumento dell’incidenza di linfomi e leucemie nei topi femmine a seguito dell’assunzione di vari dosaggi di aspartame. Inoltre, uno studio italiano ha confermato questi dati, e ha ipotizzato un legame tra formaldeide (il metabolismo dell’Aspartame, libera anche Metanolo, trasformato prima in Formaldeide e poi in Acido Formico, entrambi tossici) rilasciata dal metabolismo dell’aspartame e l’aumento di tumori cerebrali (Europee Journal of Oncology, del 2005). Entro settembre 2012, l’EFSA, la corrispondente europea dell’FDA americana, dovrà rivalutare la sicurezza dell’aspartame. Particolare importante: qualora sia presente un disturbo (potrebbero esisterne diversi), imputabile all’assunzione di aspartame, sono necessari 60 giorni senza assunzione di aspartame, per far regredire tale sintomatologia.

Uno dei più grossi limiti dell’aspartame è quello della non resistenza alle temperature (superiori ai 30°), quindi anche quella del corpo umano, che attiverebbe i processi che portano alla liberazione delle sostanze tossiche di cui parlavo prima. Per dovere d’informazione, riporto quali sono i punti a favore dell’aspartame che ne spingono l’utilizzo: basso potere calorico (essendo circa 200 volte più dolce del saccarosio) per cui ne servono piccolissime quantità; Non innalza la glicemia, per cui adatto ai diabetici, ma ricordiamo tutti i grossi dubbi ancora esistenti.

SUCRALOSIO: Diffuso da poco tempo, anche se scoperto in Inghilterra già nel 1976, questo dolcificante deriva dal saccarosio e, per le manipolazioni cui è sottoposto lo zucchero, è considerato un dolcificante artificiale.

E’ realizzato con un processo in più fasi, si parte dal classico zucchero da cucina, il saccarosio, cui sono sostituiti tre gruppi ossidrilici (formati da ossigeno e idrogeno) con tre atomi di cloro. Il risultato è un dolcificante stabile, con lo stesso sapore dello zucchero, ma senza calorie.

Dopo questa scoperta, il sucralosio, è stato sottoposto a un programma conclusivo di test sulla sicurezza per un periodo di 20 anni. Oggi il sucralosio, è autorizzato in oltre 80 paesi. Può essere utilizzato da tutti, anche da bambini, durante la gravidanza o l’allattamento, ed anche dai diabetici. Resiste al calore e può essere sottoposto a cottura, anche in forno. E’ molto utile per quanti cercano di ridurre l’assunzione di zucchero e calorie. Aumenta sempre più il numero di alimenti e bevande che sono dolcificate con sucralosio. Quello che rende possibile l’utilizzo in piccolissime quantità, è un potere dolcificante circa 600 volte superiore a quello dello zucchero.
Grosso vantaggio è l’eccellente sapore dolce, molto simile a quello dello zucchero.

Inizialmente vi fu un dubbio sul destino degli atomi di cloro, ma attendibili accertamenti hanno promosso a pieni voti questa sostanza. Infatti, il sucralosio rimane intatto nell’organismo. Il cloro non è liberato, dato che la molecola di sucralosio rimane intatta ed è eliminata quasi totalmente senza modifiche. Altro dato importante è che la molecola non interagisce minimamente con l’alimento che la contiene.

STEVIA: recentemente si è diffuso un nuovo dolcificante, che presenta interessanti caratteristiche: la stevia.

Si tratta di una piccola pianta erbacea arbustiva perenne della famiglia delle composite (lattuga, calendula, cicoria), nativa delle montagne fra Paraguay e Brasile. Ha una buona capacità dolcificante: nella sua forma naturale è circa 10/15 volte più dolce del normale zucchero da tavola. Nella sua forma più comune di polvere bianca, estratta dalle foglie della pianta, arriva a essere dalle 70 alle 400 volte più dolce dello zucchero, pertanto pare sia il dolcificante naturale più potente. Una sola fogliolina fresca dopo qualche istante, trasferisce al palato una forte sensazione dolce, lasciando alla fine un lieve retrogusto di liquirizia. I principi attivi sono lo Stevioside e il Rebaudioside A.

Non causa diabete; non ha calorie; non altera la glicemia; non dovrebbe avere tossicità (al contrario dei dolcificanti sintetici); non provoca carie; non contiene sostanze artificiali; può essere utilizzata per cucinare. Sono stati ipotizzati anche alcuni impieghi in medicina per il diabete e l’obesità. Consente, infatti, di ridurre il consumo di zucchero, specie quello bianco.

Si utilizza ormai su larga scala, in Giappone, per esempio, è già usata per dolcificare la Coca Cola Light.
La sua commercializzazione è stata a lungo ostacolata per via dei numerosi interessi legati alla produzione di altri dolcificanti ( barbabietole da zucchero, canna da zucchero ecc).

Importanti caratteristiche che la connotano sono:

  • Non è fermentabile (come lo zucchero), quindi utile a chi soffre di candida
  • Stabile al calore, almeno fino a 200° C
  • Non è tossica, quindi sicura
  • E’ senza calorie
  • Può essere utilizzata dai Diabetici e nelle diete ipocaloriche

È sicuramente un buon dolcificante naturale, già usato in molti paesi; per il momento i limiti sono dati dai costi, non ancora competitivi per la coltivazione delle piante e per l’estrazione.

Infine, per concludere questa panoramica sui dolcificanti (ricordo la prima parte dell’articolo: Come dolcificare nel modo migliore? – parte 1), vorrei esprimere solo una breve considerazione. Tra i vari dolcificanti, vale sempre la regola delle quantità, ad esempio, il fruttosio, entro limitate quantità, può essere utilizzato tranquillamente, ma aumentando il consumo crescono, in maniera direttamente proporzionale, gli svantaggi. Ricordo inoltre le virtù della stevia e del sucralosio, che veramente restano inerti e senza calorie.

a cura del Dr Francesco Lampugnani, Biologo Nutrizionista, Specialista in Farmacologia



September 30, 2012 Newsletter

Secondo una recentissima ricerca, condotta da un gruppo dell’Università di Adelaide, e pubblicata sull’ultimo numero dell’European Journal of Epidemiology, i bambini alimentati con diete sane in età precoce svilupperebbero, nel tempo, un quoziente intellettivo leggermente superiore, rispetto ai coetanei cresciuti con “diete spazzatura”.

Lo studio, che ha avuto come campione oltre 7.000 bambini, ha esaminato il legame tra le abitudini alimentari dei bambini a 6 mesi, 15 mesi e due anni, e il loro quoziente d’intelligenza (QI) a otto anni di età.

Sono stati analizzati una vasta gamma di modelli alimentari, valutando: gli aspetti tradizionali, le modalità di preparazione, l’utilizzo di prodotti freschi o preparati, l’allattamento al seno, il consumo di “cibi spazzatura” e di quelli verso i quali potrebbe esistere un’intolleranza.

Poiché nei primi due anni di vita la dieta fornisce le sostanze nutritive necessarie allo sviluppo del sistema nervoso, scopo dello studio è stato quello di analizzare il reale impatto delle abitudini alimentari sul QI dei bambini.

I risultati mostrano che i bambini allattati al seno a sei mesi e, alimentati con una dieta sana e regolare a 15 e 24 mesi (dieta ricca di legumi, frutta e verdura) hanno manifestato, a 8 anni, un QI superiore di due punti rispetto ai bambini cresciuti con una dieta ricca di biscotti, cioccolato, dolci, bibite e patatine fritte nei primi due anni di vita.

Sembrerebbe che un effetto negativo possa essere determinato anche dall’assunzione in età precoce di alimenti già preparati industrialmente e ricchi di conservanti e/o additivi alimentari, ma a questo riguardo i risultati appaiono discordanti.

Le evidenze raccolte sottolineano la necessità di nutrire i bambini con cibi sani fin dai primi anni di vita. Un’alimentazione corretta contribuisce, infatti, al completo sviluppo delle facoltà psichiche. Importante, inoltre, un apporto corretto di acidi grassi della serie omega 3/6, derivati da pesce e verdura, per favorire lo sviluppo generale del bambino e del sistema nervoso centrale.

Anche se le differenze di QI non sono esorbitanti, è stato comunque dimostrato il ruolo cruciale dei modelli alimentari, adottati nel periodo dai 6 ai 24 mesi, per sviluppo cognitivo dei bambini.

Invitiamo a controllare l’alimentazione dei bimbi fin dai primi giorni di vita; fondamentale per lo sviluppo e il nutrimento del neonato è l’alimentazione della madre. Un’alimentazione corretta ed equilibrata, infatti, influenzerà la crescita del bambino, riducendo la possibilità di sviluppare allergie alimentari, dermatite, colite.



August 30, 2012 Newsletter

Negli ultimi anni il crescente interesse per la microflora intestinale ha confermato il ruolo della dieta e dell’integrazione, e ha messo in evidenza gli effetti positivi e negativi prodotti rispettivamente da una condizione eubiotica o disbiotica (disbiosi intestinale).

Recenti studi hanno suggerito importanti relazioni tra l’equilibrio della flora intestinale e alcune malattie del sistema immunitario. Potrebbero, infatti, essere proprio i batteri intestinali a regolare malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide. Lo sostiene una ricerca dell’Università dell’Illinois e della Mayo Clinic di Rochester (Minnesota) secondo la quale i batteri intestinali sono fondamentali per la regolazione del sistema immunitario.
 Il lavoro, pubblicato su PloS One, e rilanciato da malattierare.it, è stato realizzato con l’utilizzo di alcune sofisticate tecnologie di sequenziamento genomico, che hanno dimostrato come la microflora intestinale può essere un biomarcatore per la predisposizione all’artrite reumatoide.

L’artrite reumatoide, le cui cause non sono ancora note, colpisce quasi l’1% della popolazione mondiale. Si tratta di una patologia cronica in cui il sistema immunitario attacca i tessuti, infiamma le articolazioni, e talvolta determina complicazioni cardiache che possono anche portare al decesso.
 I ricercatori della Mayo Clinic di Rochester hanno raggiunto importanti progressi nella conoscenza del rapporto tra sistema immunitario e batteri intestinali, e dell’influenza che questi fattori possono avere nelle persone con predisposizioni genetiche alla malattia. Lo studio è stato effettuato su alcuni topi con gene umano HLA-DRB1 0401, forte indicatore della predisposizione all’artrite reumatoide. Grazie a un gruppo di controllo con una diversa variante del gene, gli scienziati hanno confrontato le risposte immunitarie di due gruppi a batteri diversi, valutandone l’effetto sull’artrite reumatoide.

Hanno scoperto, inoltre, che i topi di sesso femminile hanno il triplo della probabilità di sviluppare la malattia.

”Il prossimo passo per noi – hanno dichiarato i ricercatori – è quello di mostrare se i bug presenti nell’intestino possono essere manipolati per cambiare il corso della malattia”.

Utile un controllo della flora intestinale con DISBIOSI test su urine che rivela la concentrazione d’indolo e scatolo intestinale, frutto di un rapporto alterato tra batteri “buoni” e “cattivi”, e un controllo delle feci, la valutazione dei ceppi batterici presenti nell’intestino. Lo studio della flora batterica intestinale attraverso le feci identifica anche la predisposizione a malattie infiammatorie intestinali che possono essere causa di malattie auto immuni sistemiche.

Un’arma terapeutica per la modulazione della flora batterica intestinale è l’idrocolon terapia, che facilità la rimozione dei batteri patogeni, funghi presenti nel lume intestinale, e facilità la riflorazione dei batteri protettivi, attraverso l’introduzione di fermenti specifici e personalizzati.



July 30, 2012 Newsletter

La pitiriasi alba è una comune malattia della pelle, che interessa soprattutto i bambini di età compresa tra i 3 e i 16 anni, con maggiore incidenza nei maschi. Benché sia più evidente negli individui di carnagione scura, colpisce maggiormente gli individui di carnagione chiara.

A oggi, non si conosce la causa della pitiriasi alba. Tali lesioni possono tuttavia presentarsi nel contesto di una dermatite atopica, o di una psoriasi, e tale associazione suggerisce una causa infiammatoria come terreno patogenetico. A sostegno di questa ipotesi vi è, inoltre, il quadro istologico che mostra una diminuzione dei melanociti (le cellule che producono melanina) e dei melanosomi, infiltrazione di cellule infiammatorie linfocitarie a livello del derma e paracheratosi, caratteristica di diversi quadri infiammatori cutanei.

La pitiriasi alba appare come una macchia chiara, bianca, di forma circolare od ovalare, non dolente e non pruriginosa, singola o comunque in numero limitato. A differenza dalla vitiligine, le chiazze non sono mai completamente bianche; la superficie centrale è finemente desquamante, e i margini sfumati.

Le zone di presentazione possono essere ovunque, (soprattutto sulla superficie estensoria delle articolazioni), frequentemente si localizzano a livello della fronte, dell’angolo labbiale, delle guance e degli zigomi. Per il contrasto con la cute circostante, le macchie sono più visibili in estate o comunque sulla cute abbronzata. La diagnosi differenziale si pone con: vitiligine, pitiriasi vescicolare e ipocromie post traumatiche, esiti di precedenti micosi o leucoplachie.

La terapia medica non esiste, essendo un’affezione cutanea autolimitante. A volte blande crema base di cortisone sono utilizzate per brevi periodi per limitare l’estensione della macchia chiara.

La probabile associazione tra pitiriasi alba e intolleranze alimentari, in grado di scatenare una risposta immunoflogistica aspecifica, può essere presa in considerazione se esiste un “terreno” di: predisposizione individuale alle allergie alimentari, pregressa atopia, comparsa di lesioni psoriasiche cutanee.

Una certa attività anticorpale diretta verso i melanociti, creata da infiammazione cronica silente dei linfociti, si può gestire con il controllo degli alimenti riscontrati positivi al test d’intolleranza alimentare ALCAT. Il test verifica il grado di reattività dei granulociti neutrofili verso gli antigeni alimentari, capaci di innescare il processo di immunoflogosi in presenza di reazioni da intolleranza alimentare eccessiva.



March 30, 2012 Newsletter

Le oltre 500 donne che lo scorso 10 marzo hanno partecipato alla VII edizione del Convegno di Medicina Estetica Personalizzata, organizzato da Frontis – società di medicina del benessere, dimostrano quanto il crescente interesse femminile verso la cura della persona riguardi sia il punto di vista fisico sia quello psichico.

1203_Giuseppe_Di_FedeL’evento, tenutosi a Roma presso l’Ateneo Salesiano, ha rappresentato un importante momento di dialogo e confronto sui temi centrali per la salute dell’universo femminile: la medicina integrata, l’alimentazione, la sicurezza, la medicina estetica.

Tra gli argomenti più dibattuti: il grande valore per il nostro benessere psico-fisico della terapia integrata, che unisce l’omeopatia alla medicina tradizionale; l’utilizzo degli integratori; l’importanza di una corretta lettura delle etichette e del consulto di un valido professionista.

Numerosi gli specialisti medico-estetici, i chirurghi, gli omeopati e i docenti presenti. Tra questi, anche il Prof. Giuseppe Di Fede, Direttore Sanitario di Imbio e Imgep – Milano, che nell’ambito della tavola rotonda dedicata all’alimentazione, ha affrontato il problema delle intolleranze alimentari. Particolare attenzione è stata dedicata ad Alcat test, moderno strumento la cui attendibilità permette una diagnosi certa d’intolleranza alimentare su base citotossica.


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