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April 4, 2014 Newsletter

Recentemente, alcuni ricercatori hanno evidenziato l’esistenza di una patologia fino a pochi anni fa sconosciuta e che, solo da poco, ha avuto un riconoscimento ufficiale. Mi riferisco alla Systemic Nickel Allergy Sindrome (SNAS). La clinica della SNAS è essenzialmente caratterizzata dalla comparsa di sintomatologia a carico della cute, con eczema da contatto anche in regioni del corpo che invece normalmente non entrano in contatto con il metallo.

Precedenti patch test (test allergologici) positivi per il nichel e l’ orticaria talora associata ad angioedema, disturbi rilevanti a carico del tratto intestinalecon dispepsia, meteorismo, coliche addominali, alvo alterno ( stipsi e dissenteria ), vomito e sintomi da reflusso gastroesofageo. I sintomi si presentano in occasione dell’ingestione di cibi ad alto contenuto di nichel. Pensate che questi sintomi, noi medici clinici attenti al problema delle intolleranze alimentari, li abbiamo osservati da diversi anni e li abbiamo correlati con disturbi legati all’ingestione di alimenti non tollerati. Ma certo, direste voi! Ma nessuno in passato si sarebbe sognato di descrivere tali sintomi e correlarli con il contenuto di nichel negli alimenti, per i soggetti particolarmente sensibili.

La diagnosi risulta più agevole se i sintomi compaiono dopo alcuni anni, nei soggetti con dermatite da contatto ( eczema da contatto ).La prima fase della diagnosi di SNAS è l’anamnesi, la raccolta attenta dei sintomi, le modalità, la frequenza e la durata dei disturbi, la relazione con i cibi e l’introduzione dei cibi ad alto contenuto di nichel, può orientare la diagnosi.

L’Istituto di Medicina Biologica e il suo staff da tempi non sospetti,si occupa di intolleranze alimentari e in particolar modo di intolleranza al nichel e al glutine. La collaborazione con un prestigioso Ente ospedaliero il San Matteo di Pavia, che da anni ci sostienenel campo dell’allergia e intolleranza alimentare, ci ha permesso di raccogliere dati che riguardano le intolleranze alimentari. La diagnostica clinica e di laboratorio è molto importante per porre una diagnosi. Un test determinante per al diagnosi, presente in 52 paesi del mondo, è il Test ALCAT®( Antigen Leucocitary Cellular Antibody Test ). È un test leucocito tossico, computerizzato e automatizzato che si esegue su sangue venoso, quindi occorre un prelievo di sangue e si analizzano quote di alimenti che reagiscono con le cellule del sistema immunitario innato, i Granulociti Neutrofili.

Le risposte che ne derivano, sono reazioni di tre gradi di importanza, dal grado 1,il meno grave, al grado tre, il più grave. Il test ALCAT®permette di ottenere una diagnosi di sensibilità agli alimenti, ponendo un ragionamento di gruppi alimentari che corrispondono agli alimenti risultati positivi al test. Dopo la risposta al test ALCAT®, segue una dieta a rotazione, eliminando quasitotalmente gli alimenti risultati intollerati con un grado di reattività medio alta, lasciando due o tre momenti di dieta libera durante al settimana, in modo da permettere una sorta di recupero del grado di tolleranza, che in qualche modo il paziente ha ridotto nel tempo. Il gruppo di collaboratori e medici, coordinati da IMBIO, ha da tempo raccolto diversi dati, sulle possibili reazioni dovute al cibo, come sostanza considerata “estranea” all’organismo e, messa in relazione con la comparsa di stati infiammatori. Ii sintomi che spesso sono raccolti dai nostri collaboratori, sono i più frequenti, colite, stipsi o dissenteria, mal di testa emicrania, dermatite non allergica fino all’orticaria fino all’artrite.

È da notare come i sintomi regrediscono, dopo una dieta a scarso contenuto di nichel, seguita per alcune settimane. Qualsiasi stato infiammatorio, non dovuto a cause specifiche o malattie diagnosticabili clinicamente e con analisi di laboratorio, è da ricondurre ad uno stato di “sollecitazione” infiammatoria dovuta dal cibo.
Di seguito potete osservare la raccolta dei dati da parte della dottoressa Cecilia Pedroni, del Master in Nutrizione Umana, Univ. Di Pavia e collaboratrice di IMGEP ( Istituto di Medicina Genetica Preventiva, di Milano ), coordinato dalla Dottoressa Carassai Paola, evidenzia come i dati sono a favore di un’ aumento della sensibilità al nichel degli alimenti.
Nei grafici che seguono viene mostrata la distribuzione dei pazienti IMGeP che hanno eseguito l’ALCAT TEST suddivisi per i Gruppi Alimentari di intolleranze: nichel, salicilati, lieviti, latte e derivati, frumento e nessuna/altro.

Recentemente abbiamo partecipato alla stesura di un libro “Nichel. L’intolleranza? La cuciniamo”  Edito da Silvana Editore, con Tiziana Colombo, scrittrice e cuoca provetta. Nel testo si racconta il percorso clinico e diagnostico dell’intolleranza al nichel in modo piacevole e leggero, fino ad arrivare alla parte più importante, le 111 ricette, di piatti prelibati, con foto che li descrivono, tutte in originale che permettono di cucinare prelibatezze di alto livello, sena alimenti contenenti nichel. Una specie di guida dell’intolleranza al nichel, che ha colmato un vuoto, dando l’opportunità di avere una soluzione al problema intolleranza.

Il gruppo di lavoro di IMBIO e IMGEP è da sempre attento al problema intolleranza e alla ricerca di nuovi sistemi di diagnosi, che ci permettono di trovare al causa e la soluzione ai problemi legati alle intolleranze alimentari.

 



February 18, 2014 Newsletter

Parlare di diabete, è importante sottolinearlo, significa riferirsi ad una patologia diffusissima in tutto il mondo occidentale, si tratta in ultima analisi di una malattia metabolica caratterizzata da un’alterazione dei livelli di glicemia nel sangue; nella sua forma più comune (il diabete mellito) inoltre, il paziente presenta grandi quantità di zucchero nelle urine.

Ne esistono di due tipi:

  • Diabete di tipo I: o diabete autoimmune, caratterizzato dalla distruzione delle cellule pancreatiche deputate alla produzione di insulina (Isole di Langerhans).
  • Diabete di tipo II (forma in assoluto predominante): o diabete familiare non autoimmune, caratterizzato da insulino-resistenza, dalla difficoltà cioè dell’insulina di interagire positivamente con i suoi recettori, impedendo quindi al glucosio di penetrare nelle cellule per poter essere utilizzato come fonte primaria di energia.

Riflettiamo su qualche dato ufficiale.

ü  Negli USA 1/3 un terzo degli adulti dai 20 anni in su è obeso e la stessa tendenza si evidenzia tra i bambini di 2 anni (National Center for Health Statistics, Obesity still on the rise, new data show. The U.S. Department of Health and Human Services News Release, 10 ottobre 2003, Washington D.C., 2002). La correlazione tra obesità e diabete è ormai considerata un dato di fatto dalla scienza ufficiale.

ü  Tra i 30enni americani il diabete è aumentato del 70% in meno di 10 anni: si preannuncia una catastrofe sanitaria (Mokdad, Ford, Bowman et al., Diabetes trends in the USA: 1990-1998, Diabetes Care, vol 23, 2000, pp. 1278-1283).

ü  Conseguenze del diabete: cardiopatia ed ictus, cecità, malattie renali, disturbi del sistema nervoso, patologie dentali, amputazione arti (Centers fo Disease Control and Prevention, National Diabetes Fact Sheet: National Estimates and General Information on Diabetes in US, Revised Edition, Center for Disease Control and Prevention, GA, 1998).

ü  Costo annuale del diabete in USA: 98 miliardi di dollari (American Diabetes Association, Economic consequences of diabetes mellitus in the US in 1997, Diabetes Care, vol. 21, 1998, pp. 296-309).

Da queste poche righe siamo in grado di affermare senza poter essere smentiti che il diabete rappresenta una minaccia per la salute di assoluto impatto sui sistemi sanitari internazionali delle società occidentali, sia in termini di costi da sostenere che di patologie ad esso correlate.

Se da un lato la terapia farmacologica spesso è uno strumento insostituibile quando la patologia è ormai conclamata, dall’altro moltissimo si può e si deve fare per prevenire lo svilupparsi di tale nemico della nostra salute. Una dieta sana, basata su frutta e verdura fresche (e possibilmente di stagione), quantità limitate di proteine animali, regolare attività fisica, consumo limitatissimo di zuccheri semplici unitamente ad una costante assunzione di carboidrati integrali e fibre, contribuiscono a difenderci dallo svilupparsi di questa vera e propria epidemia. La percentuale delle persone che hanno una intolleranza agli zuccheri, è in aumento.

Ancora più importante, sempre in termini preventivi, è la valutazione su base genetica dell’eventuale maggiore suscettibilità personale nel contrarre tale patologia. Attualmente la scienza è in grado, attraverso l’analisi del nostro DNA, di stabilire quanto il nostro organismo sia predisposto a sviluppare il diabete, consentendoci di utilizzare una strategia preventiva corretta e personalizzata in termini di dieta, esami clinici, e stile di vita. L’essenza stessa della medicina anti-aging: vivere a lungo attraverso un invecchiamento che garantisca un’eccellente qualità della vita, evitando nel contempo di sviluppare le patologie più pericolose.

Dott. Orlandoni Daniele – Farmacologo – Diploma in medicina anti aging – Consulente in medicina anti invecchiamento e prevenzione presso I.M.Bio – Milano

 



August 30, 2012 Newsletter

Per far la vita meno amara, e per mantenere in equilibrio la nostra situazione energetica, abbiamo spesso bisogno di soddisfare la nostra voglia di “dolce”. Ma come dolcificare nel modo migliore? Dolcificanti naturali o artificiali?

Facciamo una piccola premessa.

Zucchero è un termine generale che indica tutti i Carboidrati o Glucidi, sostanze organiche formate da Carbonio, Idrogeno e Ossigeno, con formula molecolare (CH2O) n.
I Carboidrati vengono di solito classificati in semplici e complessi; quelli semplici, chiamati zuccheri, comprendono i Monosaccaridi (con una molecola di zucchero), gli Oligosaccaridi (con due o più molecole) e i Polisaccaridi (con molte molecole di zucchero). Tra i Monosaccaridi, ricordiamo il Glucosio, il Fruttosio, il Galattosio. Gli Oligosaccaridi si trovano prevalentemente nei vegetali, in particolare nei legumi.

Da un punto di vista nutrizionale, i più importanti sono i disaccaridi (con due zuccheri), tra cui:

  • Saccarosio (Glucosio+Fruttosio), lo zucchero da cucina
  • Lattosio (Galattosio+Glucosio), lo zucchero del latte
  • Maltosio (Glucosio+Glucosio), lo zucchero dei cereali.

I Polisaccaridi si formano dall’unione di numerosi monosaccaridi e si distinguono in Polisaccaridi Vegetali (Amidi e Fibre) e di Origine Animale (Glicogeno).
Oltre agli zuccheri naturali, derivanti da piante, frutti e altri prodotti naturali, vi sono i dolcificanti di sintesi, prodotti con procedimenti chimici particolari.
Fatta questa breve premessa, andiamo ad analizzare le caratteristiche delle sostanze dolcificanti, sia naturali sia sintetiche, valutando i pregi e i difetti che possono avere per noi consumatori.

Prenderemo in considerazione lo Zucchero Bianco, lo Zucchero di Canna e il Fruttosio. Seguirà un secondo articolo in cui valuteremo la Saccarina, l’Aspartame, il Sucralosio e la Stevia.

ZUCCHERO BIANCO

Lo zucchero bianco è il prodotto finale di una lunga trasformazione del succo zuccherino derivato dalla barbabietola o dalla canna da zucchero. Dapprima, il succo è depurato con calce idrata, che provoca la perdita e la distruzione di sostanze organiche, proteine, enzimi e calcio; e poi trattato con Anidride Carbonica, per eliminare i residui di calce. Prima di essere sottoposto a cottura, raffreddamento, cristallizzazione e centrifugazione, il prodotto subisce un trattamento con Acido Solforoso, che consente di eliminare il colore scuro. Si ottiene così lo zucchero grezzo. Si passa poi alla seconda fase della lavorazione in cui lo zucchero è filtrato, decolorato con carbone animale e, per eliminare il colore giallognolo residuo, colorato con il “Blu oltremare” o con il “blu Idantrene” (colorante proveniente dal catrame, quindi cancerogeno).

Il prodotto finale è una sostanza cristallina (e apparentemente naturale), che però non contiene più tutte le sostanze vitali e le vitamine presenti nella barbabietola o nella canna da zucchero.

ZUCCHERO di CANNA GREZZO

Si ottiene direttamente dal succo estratto dalle Canne da Zucchero, schiacciate con operazioni artigianali (senza l’utilizzo di sostanze chimiche). La sua consistenza granulosa o in polvere non è mai cristallina, e le canne, molto spesso, provengono da coltivazioni biologiche.

Che cosa avviene nel nostro organismo quando ingeriamo lo zucchero raffinato?

Per poter essere assimilato e digerito, e per ricostituire l’armonia di elementi distrutta nel processo di raffinazione, lo zucchero bianco sottrae al nostro organismo vitamine e sali minerali (soprattutto Calcio e Cromo). Questo tipo di situazione è molto ridotta quando s’ingerisce lo zucchero di canna grezzo, perché quest’ultimo contiene ancora alcune sostanze benefiche che invece si perdono nel processo che conduce allo zucchero bianco.

A livello intestinale, lo zucchero bianco provoca fenomeni fermentativi con produzione di gas, aumento della tensione addominale, e alterazione della flora batterica, che genera inevitabili coliti, stipsi, diarree.

Lo zucchero bianco ha, inoltre, una grande influenza sul metabolismo e sul sistema nervoso. Il rapido assorbimento dello zucchero nel sangue provoca un innalzamento della glicemia cui segue una rapida liberazione di Insulina, e la conseguente caduta del tasso glicemico (crisi ipoglicemica), caratterizzata da uno stato di malessere generalizzato, debolezza, irritabilità, nervosismo e bisogno di mangiare per sentirsi di nuovo in forma.

Questi dannosi sviluppi sono stati ampiamente verificati negli Stati Uniti, dove alcuni studi hanno evidenziato l’aumento di violenza e aggressività nei bambini che abusano di zucchero raffinato (zucchero bianco). Non dimentichiamo, inoltre, che lo zucchero è senz’altro una delle cause del sovrappeso e dell’obesità, patologie sempre più diffuse, specie tra i bambini. Considerati, dunque, i numerosi effetti negativi dello zucchero sul nostro organismo il consiglio è di moderarne l’uso, e limitare il consumo di tutti quegli alimenti lavorati e confezionati che lo contengono.

FRUTTOSIO

Il fruttosio, detto anche Levulsio, è un monosaccaride chetonico (particolare gruppo chimico, con doppio legame tra carbonio e ossigeno) che si trova prevalentemente nella frutta zuccherina, nel miele e in alcune verdure; combinato con una molecola di glucosio, forma il saccarosio, il classico zucchero da cucina.

Buona parte del fruttosio in commercio proviene dallo sciroppo di mais ricco di fruttosio, noto con l’acronimo HFCS (High Fructose Corn Syrup). Questa sostanza si ottiene convertendo il glucosio presente nell’amido di mais, mediante un processo d’isomerizzazione (glucosio e fruttosio, sono molecole simili, entrambi con sei atomi di carbonio, ma disposte nello spazio in maniera diversa).

Il Fruttosio è assorbito più lentamente dall’organismo, e una volta assorbito, non entra direttamente in circolo, ma viene trasformato in glucosio dal fegato. Una volta convertito in glucosio, può subire due trasformazioni: essere convertito in glicogeno epatico (zucchero di riserva energetica per l’organismo), o in Trigliceridi. Sicuramente il fruttosio ha il vantaggio di avere un basso impatto glicemico, ma in ogni caso, non bisogna abusarne, perché può alzare moltissimo i trigliceridi nel sangue.

Elevate quantità di fruttosio possono anche causare diarrea, dolori addominali, flatulenza.
Recentemente si è riscontrata anche la presenza d’intolleranze alimentari verso il Fruttosio (diagnosticabile con il test per le intolleranze alimentari ALCAT), da non confondere con quelle genetiche (fruttosemia genetica).

Il Fruttosio, se consumato in dosi eccessive, può anche determinare, soprattutto nei soggetti predisposti, un aumento di Acido Urico.

Tra i vantaggi c’è quello di avere un potere dolcificante del 30% superiore rispetto al saccarosio (e quindi ne serve meno). Si tratta inoltre di un valido compromesso tra l’assenza di sostanze tossiche utilizzate per la sua preparazione e i processi metabolici (vedi glicemia, insuline mia ecc) legati al suo metabolismo (punti entrambi a sfavore del saccarosio, soprattutto il bianco).

Se non supera la quantità di 30 grammi a pasto, l’assunzione di fruttosio non influisce sui valori dell’insulina, altrimenti è trasformato in glucosio e può determinare un aumento dei livelli di glicemia nel sangue (per questo motivo l’ADA, l’American Diabetes Associations, ne ha vietato l’uso ai diabetici).

Anche in questo caso, come per il saccarosio, è quindi fondamentale non abusare della sostanza.

Per completare la breve descrizione, e a riprova dell’importanza delle “quantità”, voglio evidenziare
un “chicca” biochimica che è rilevante per l’interpretazione di una serie di alterazioni tipiche del Diabete e dell’obesità. Il Fruttosio è trasportato nelle cellule per diffusione facilitata, mentre il glucosio e il lattosio sono trasportati attivamente insieme a ioni Na+, che si legano alle proteine trasportatrici che consentono di attraversare le membrane. Queste molecole trasportatrici sono chiamate GLUT, e ce ne sono almeno 5, con funzioni diverse. La GLUT 4 dipende direttamente dall’insulina, si trova soprattutto nel muscolo e nel tessuto adiposo e rappresenta la maggior attività trasportatrice di Glucosio nell’Adipocita.

segue: Come dolcificare nel modo migliore? – parte 2

a cura del Dr Francesco Lampugnani, Biologo Nutrizionista, Specialista in Farmacologia



October 30, 2011 Newsletter

“Siamo quello che mangiamo”, affermava Feuerbach.

Lasciando da parte le questioni filosofiche, affermare che siamo quello che mangiamo non è solo un banale “dato di fatto biochimico” ma significa che il modo in cui il cibo è coltivato, distribuito e cucinato, influisce sulla nostra persona nella sua totalità assai più di quanto immaginiamo.

Penso sia d’obbligo iniziare la trattazione di un argomento così tanto attuale, quale è quello delle Intolleranze Alimentari legate all’aumento ponderale escludendo quelle a base genetica, considerando come l’insorgenza delle Intolleranze Alimentari sia molto legata a come si mangia, non solo da un punto di vista delle abitudini ma anche dal punto di vista della qualità. Fatta questa, penso, doverosa introduzione, cerchiamo di vedere più da vicino queste “temute” Intolleranze Alimentari: in generale e sotto l’aspetto molto sentito e seguito soprattutto dalla popolazione femminile e cioè le correlazioni tra Intolleranze Alimentari e Sovrappeso.

Le Intolleranze Alimentari, rappresentano delle reazioni insolite al cibo, caratterizzate dalla comparsa di disturbi di vario tipo, non molto gravi ma fastidiosi e spesso associati a sovrappeso ed obesità.

Le generiche reazioni avverse agli alimenti, vengono distinte sulla base del meccanismo eziopatogenetico, in: forme a meccanismo immunologico o Allergie Alimentari e forme a meccanismo non immunologico o Intolleranze Alimentari. Il termine allergia alimentare, va riservato alle forme per le quali sia dimostrabile un meccanismo immunologico, che può essere in prevalenza IgE-mediato, ma appartenere anche ad altre categorie di reazioni immunopatogene o derivate dall’associazione di più meccanismi immunologici.

Le Intolleranze A. possono essere:

  • Enzimatiche, caratterizzate dall’incapacità di metabolizzare alcuni principi attivi a causa di
    un enzima specifico.
  • Farmacologiche, che si presentano nei soggetti che hanno una particolare reattività verso
    determinate molecole presenti nei cibi (vedi le Ammine vasoattive Istamina, Tiramina ecc).
  • Da Additivi: compaiono per reazione nei confronti degli additivi aggiunti agli alimenti.

Ogni Intolleranza A. genera sintomi ben percepibili che si combattono solo eliminando dalla dieta i cibi incriminati, depurando l’organismo.

Differenza fondamentale tra le Allergie e le Intolleranze è quella legata alla tempistica sintomatologica. Le prime esprimono uno stato di malessere intenso, già dopo pochi minuti dal consumo dell’alimento e la sua gravità non dipende dalla quantità ingerita. Disturbi che si presentano per ragioni di carattere immunitario.

Le seconde invece, esprimono sintomi più vaghi a distanza di ore e fino a due giorni dopo l’ingestione dell’alimento. I disturbi accusati, compreso l’aumento di peso, tendono a peggiorare con l’aumento delle quantità degli alimenti ingeriti e non sono dovuti a fattori immunitari, ma a meccanismi di ipersensibilizzazione dell’intestino. A tal proposito, ho piacere di spendere due parole sul ruolo importante di quest’ultimo, che nella mia pratica quotidiana è sempre tenuto in gran considerazione sia che si tratti di intolleranze Alimentari, sia che si tratti di altri disturbi acuti e cronici. L’intestino per quanto riguarda l’instaurarsi di un’Intolleranza, ricopre un ruolo fondamentale. Infatti presiede, grazie a strutture come le Tight Junction, la membrana basolaterale, la membrana laterale, i microvilli e soprattutto l’enorme presenza della flora batterica , a tutta una serie di attività atte prevalentemente a proteggere l’organismo dall’aggressione di sostanze nocive, di germi patogeni, ed anche di componenti immunogeniche. Qualsiasi alterazione di tali strutture, comporta sia sofferenze acute, sia croniche. Sia le Intolleranze Alimentari, sia le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI), vedono tra le cause, un’alterazione dell’effetto barriera intestinale.

Al momento ci sono diverse correnti di pensiero, circa l’associazione delle Intolleranze A. all’aumento di peso. La pratica ambulatoriale quotidiana, mi conferma abbondantemente l’associazione tra i due eventi e fondamentale, risulta la giusta individuazione degli alimenti sospettati.

Breve ricordo biochimico sul bilancio energetico. Quando assorbiamo energia e nutrienti in quantità sufficiente a soddisfare i nostri fabbisogni senza accumulare grasso corporeo, siamo in una condizione che definiamo di equilibrio energetico, ed il peso rimane stabile. Se l’energia assorbita è superiore alle esigenze metaboliche (bilancio energetico positivo) la frazione in eccesso viene accumulata nel tessuto adiposo e il peso corporeo aumenta. Se invece le nostre esigenze energetiche non sono soddisfatte (bilancio energetico negativo), l’organismo per far fronte alle sue richieste, demolisce i grassi di riserva e di solito si perde peso. Fatta questa precisazione, cerchiamo di capire come la sovrapposizione di un’intolleranza alimentare, possa influire sull’accumulo di peso.

Quanto detto poco sopra circa il bilancio energetico che se positivo ci porta ad accumulare grasso, è quasi sempre vero. Può succedere infatti che l’organismo, pur assumendo una giusta quantità di alimenti, si trovi nell’incapacità di utilizzarlo nel modo corretto, portando così alla formazione di scorie che sono d’intralcio al funzionamento stesso della meravigliosa macchina, che è il corpo umano. Questa situazione può avvenire in diverse occasioni, compresa la presenza di un’intolleranza alimentare. E’ noto ormai che situazioni infiammatorie (come lo sono le intolleranze), possano peggiorare o provocare ritenzione idrica, edemi, alterazioni del microcircolo in toto. Nella mia pratica quotidiana del trattamento di pazienti a cui sono state riscontrate delle intolleranze alimentari, proponendo diete disintossicanti verso gli alimenti interessati, prima, e diete di riabilitazione dopo, riesco ad ottenere risultati non solo sul benessere generale, compresi i disturbi tipicamente legati all’alimento non tollerato, ma cosa importante, ottengo miglioramenti sulla diminuzione del peso e delle circonferenze, che gli stessi pazienti non erano riusciti ad ottenere, adottando diete che miravano solo ad un ridimensionamento calorico.

Una dieta che tenga conto della presenza di un’intolleranza alimentare, può determinare un buon risultato sulla perdita di Massa Grassa (FM) e sul recupero di Massa Magra (FFM) che, in pratica, si evidenzia con una perdita di peso ed una notevole riduzione delle circonferenze corporee, dati non solo dalla riduzione della Massa Grassa, ma anche dal miglioramento dello stato infiammatorio generale dell’organismo. Su tali affermazioni, ci sono in letteratura numerosi articoli, che mettono inoltre, sempre più in risalto l’associazione: Obesità/Sovrappeso e Stato Infiammatorio. (Cito un articolo comparso su “The Journal of Clinica Investigation” dal titolo: Obesity induced inflammatory changes in adipose tissue. Appare infatti evidente, l’importanza del sistema immunitario nella patogenesi dell’obesità. Il tessuto adiposo dell’obeso, è caratterizzato dall’infiltrazione di macrofagi, che sono un’importante fonte di infiammazione del tessuto stesso. Lo studio conferma inoltre, che gli adipociti ed i vari tipi di cellule del sistema immunitario, come ad esempio i macrofagi, possiedono ruoli simili nelle vie quali l’attivazione del complemento e la produzione infiammatoria di citochine. A tutto questo scenario biochimico, c’è da aggiungere che nell’organismo, le Intolleranze Alimentari provocano una reazione infiammatoria cronica, caratterizzata dalla produzione di sostanze che acidificano i tessuti ed il sangue, rallentando il metabolismo e favorendo l’aumento di peso. Inoltre le Intolleranze ostacolano l’attività dell’Insulina, provocando una sensazione di fame perenne. Per concludere, quanto riportato ci induce ad affermare che non esistono “Diete Ideologiche”, cioè norme alimentari che devono andar bene a tutti; infatti anche la miglior dieta (teorica), si scontra con il concetto di infiammazione e conseguentemente anche con l’eventuale presenza di un’Intolleranza.

Trovo molto utile nella mia pratica quotidiana, inquadrare il paziente con problemi di disturbi verso certi alimenti e presenza di sovrappeso, indagare non solo la presenza di un’Intolleranza (utilizzo un valido test che è l’Alcat test), ma anche indagare con un semplice test genetico, l’eventuale presenza di un aumento di resistenza dell’Insulina. Giusto per dovere di cronaca, ho presentato ad un congresso i risultati di una mia esperienza su un discreto numero di pazienti (uomini e donne), seguiti per circa un anno, tutti con intolleranze alimentari individuate con il Test Alcat, i cui risultati sono molto interessanti.
Tutti (tranne pochi drop out) hanno migliorato la sintomatologia generale, hanno ridotto il peso come programmato e cosa importante, al termine del periodo di trattamento, l’assunzione degli alimenti incriminati riusciva meglio tollerata. Risultati migliori tra gli uomini.

La mia è stata semplicemente una sorta di conferma professionale verso una pratica che mi affascina ma che soprattutto mi incoraggia per i risultati. Tante cose dovranno essere ancora chiarite, ma sicuramente siamo sulla strada buona. A questo poi sicuramente aggiungo, visti i risultati, che molto dipende da noi per quanto riguarda una possibile prevenzione dei disturbi legati al tollerare o meno certi alimenti. Un semplice accorgimento che consiglio molto, è soprattutto quello di variare quanto più possibile la nostra alimentazione, che dovrebbe comprendere alimenti più naturali possibile, privi cioè di pericolose manipolazioni e trattamenti.

A cura del Dr. Francesco Lampugnani – Biologo Nutrizionista Specialista in Farmacologia
www.drlampugnani.it



September 30, 2010 Newsletter

È opinione comune ritenere che la cellulite sia eminentemente un inestetismo (peraltro molto diffuso, visto che fa soffrire circa l’80 per cento delle donne), quando in verità si tratta di una vera e propria patologia, nella fattispecie del tessuto adiposo, definita pannicolopatia edemato-fibrosclerotica.

Come ben sa chi mal la sopporta, essa si concentra prevalentemente all’esterno delle cosce (nella zona laterale del bacino), all’interno delle stesse e sui glutei, interessando il “pannicolo adiposo” che si trova fra il derma (lo strato di tessuto connettivo giusto sotto l’epidermide) e la parte muscolare. Il pannicolo ha una sua impalcatura di sostegno (il tessuto reticolare e il collagene) e una vascolarizzazione (denominata microcircolo) attraverso la quale il tessuto adiposo fornisce l’energia all’organismo o l’accumula sotto forma di grasso.

Per motivi diversi – stress, stipsi, fattori ereditari, fumo, sedentarietà, abuso di medicinali (pillola anticoncezionale), cause ormonali (per esempio un cattivo funzionamento della ghiandola tiroidea, o ipotiroidismo), disturbi del ciclo mestruale (come si verificano nella Sindrome dell’ovaio micropolicistico), ma soprattutto cattiva alimentazione –, la circolazione venosa e linfatica (vasi che trasportano scorie) può rallentare e dai capillari possono uscire sostanze che invece dovrebbero essere eliminate. Parte così il meccanismo iniziale di accumulo di liquidi (edema), che s’infiltra fra le cellule del pannicolo adiposo. Queste si allargano, peggiorando lo stato edematoso e nel contempo il tessuto di sostegno (collagene e fibre reticolari) reagisce cercando d’impedire che le cellule adipose si allontanino, ma causando così la produzione di capsule che impediscono a loro volta gli scambi ematici fra la “cellulite” e il resto dell’organismo.

I processi esposti possono essere distinti in 4 fasi che evolvono per grado di gravità. I primi due stadi possono essere rallentati o addirittura bloccati con l’attività fisica (e la corsa in particolare); nel terzo e quarto la consistente struttura fibrosa dei noduli rende tutto molto difficile. La corsa, quindi, è certamente da proporre come prevenzione e cura per i primi 2-3 stadi, insieme ad alcune semplice regole di alimentazione e qualche stratagemma nutri-cosmeceutico per sconfiggere o tenere sotto controllo la cellulite.


Gli stadi della cellulite
La cellulite viene suddivisa in quattro stadi, o gradi, in base alla gravità dei sintomi
con i quali si manifesta e alla loro difficoltà di trattamento.

1 Cellulite edematosa È caratterizzata dalla presenza di gonfiore, ma la cute è ancora tesa  ed elastica e, se compressa, non resta segno né si avverte dolore.

2 Cellulite fibrosa La pelle, se compressa, ancora non duole ma, seppur ancora liscia, comincia ad assumere un colorito spento e si presenta “a buccia d’arancia” se viene stretta fra le dita. C’è formazione di tessuto fibrotico e la cattiva circolazione sanguigna può causare formicolii, pesantezza alle gambe, crampi.

3-4 Cellulite sclerotica Il tessuto connettivo s’indurisce ulteriormente e si formano i primi macronoduli che conferiscono alla pelle l’aspetto a buccia d’arancia “a vista”. Nel quarto stadio le zone cellulitiche si presentano isolate dal tessuto circostante. I macronoduli danno origine ad avvallamenti e protuberanze; la cute è dura e dolorante alla palpazione.
È la più difficile da trattare.


CORRI (FORTE) CHE TI PASSA
In verità il running non è, e non può essere, del tutto risolutivo. Un programma di attività deve prevedere almeno 3-4 sedute di allenamento divise in 3 sedute di corsa e una di tonificazione generale, ma soprattutto delle zone interessate alla cellulite. La corsa dev’essere affrontata secondo tabelle che prevedano la possibilità di migliorare le proprie caratteristiche fisico-organiche progressivamente e secondo le proprie caratteristiche e predisposizioni.

Vanno sfatati alcuni miti: camminare invece di correre (vale solo nei casi di situazioni gravi, dove il carico sulle articolazioni è importante), oppure allenarsi sotto la soglia lattacida: si dimentica che l’acido lattico è un potentissimo vasodilatatore e stimola la produzione di mitocondri nella supercompensazione fisiologica. A torto si potrebbe pensare che la vasodilatazione da acido lattico potrebbe peggiorare la perdita di materiale vasale, perché nella prevenzione – e anche negli stadi 1 e 2 della cellulite – l’azione tonico-trofica della corsa sul circolo ematico è di gran lunga maggiore.
Una limitazione nella produzione di acido lattico potrebbe valere nei primi momenti d’allenamento per soggetti con stadio 3 di cellulite.

Quindi: progressione nell’allenamento e, nelle uscite, lasciare almeno un allenamento con corsa variata. L’allenamento di tonificazione dovrà interessare in maggior misura le parti interessate dalla cellulite, quindi con esercizi di adduzione (per i muscoli interni della coscia: 10 minuti) e abduzione (per glutei e laterali della coscia: 10 minuti), per il bicipite il femorale (posteriore della coscia: 10 minuti), per il quadricipite (10 minuti) e alla pressa (15 minuti). Meglio sarebbe utilizzare il circuit training, intervallando gli esercizi a con 10 minuti di cyclette, corsa leggera, step.

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LA COSMETICA CHE AIUTA
Utilizzo d’integratori alimentari e interventi più prettamente cosmetici possono sovrapporsi e migliorare i risultati che si possono ottenere con la corsa e l’alimentazione (vedi Occhio a ciò che mangi nel box sotto). Certamente la possibilità d’intervenire in modo coordinato in-out consente di ottenere risultati apprezzabili nella lotta contro l’inestetismo in questione, ma non bisogna dimenticare che la cellulite è anche pelle a buccia d’arancia, colore dell’incarnato, pelle asfittica, condizioni che possono migliorare molto anche con interventi cosmetici. La maggior parte degli attivatori metabolici che stimolano la lipolisi si trovano in integratori alimentari: guaranà, arancio amaro, mate, caffeina e tè verde possono attivare preventivamente l’attività lipolitica rispetto alla corsa e quindi si possono ottenere risultati sinergici.

Un effetto simile si può ottenere anche con l’applicazione topica di una crema anticellulite prima di correre. Integratori ad uso sistemico possono contenere principi fitoterapici ad azione diuretica come l’orthosiphon stamineus, che per la presenza di sinenstesina determina un effetto drenante e andiedematoso, o altri estratti come la centella asiatica e l’ippocastano che producono benefici effetti sulla tonicità dei vasi sanguigni. Da evitare l’uso d’integratori a base di fucus vesciculosus, soprattutto in soggetti a rischio d’infiammazioni tiroidee: anche una tiroide “normale” può andare incontro, “caricandola” eccessivamente di iodio, a fenomeni di flogosi cronica.

In sostanza una corretta alimentazione, integrata quando ce ne sia la necessità da una ragionata supplementazione e unita a un corretto programma di corsa, magari anche questo integrato da qualche seduta con i pesi in palestra, potranno aiutare le donne, in maniera ragionevole e soprattutto a basso costo, a prevenire e, nei primi stadi, anche a curare il più diffuso inestetismo che le colpisce.
(Ha collaborato il dottor Carmine Orlandi)

da http://www.runnersworld.it – settembre 2010
di FULVIO MARZATICO



April 30, 2009 Newsletter

Attraverso l’analisi del sangue e delle urine è possibile determinare la velocità del metabolismo delle cellule che compongono le ossa. Questo tipo di analisi è attualmente disponibile e presso IMBIO è utilizzata da diverso tempo.

Alcuni ricercatori dell’università di Aarhus, in Danimarca, stano lavorando ad un nuovo test in grado di rivelare la predisposizione a questa malattia, caratterizzata dalla lenta e graduale demineralizzazione delle ossa con predisposizione a fratture.

Per scoprire se si è predisposti all’osteoporosi, attualmente è disponibile un test genetico: prelevando con un spazzolino dedicato alcune cellule della mucosa della bocca si può rilevare la caratteristica genetica che porta all’osteoporosi. I tempi di analisi sono di 30 giorni non solo per scoprire la eventuale predisposizione, ma anche per sapere quale cura sia più efficace. Questo evita l’attesa di anni che spesso bisogna affrontare prima di scoprire se la cura indicataci dal medico abbia avuto effetto oppure no.

Il vantaggio di sapere se si è predisposti e quale tipo di cura sia più efficace, rappresenta una forma di prevenzione e riduzione della spesa sanitaria non indifferente.


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