Articoli

Tutto sul nostro settore


March 20, 2015 Newsletter

Il cortisolo, ormone steroideo prodotto dal surrene, rappresenta un fondamentale indicatore di stress. Nonostante si tratti di un parametro facilmente misurabile nella saliva e relativamente poco costoso, dotato di importanti studi a sostegno in particolare per chi si occupa di anti-aging, il cortisolo non riscontra purtroppo l’interesse medico che merita.

Non essendo mia abitudine volermi attribuire meriti che non mi appartengono, voglio subito chiarire che l’intuizione legata all’importanza di questa sostanza risale ai primi lavori sullo stress prodotti dal grande scienziato H. Selye rintracciabili sin dai suoi primi studi degli anni ’30 e proseguiti per tutto il corso della sua inimitabile carriera di scienziato-filosofo.

La misurazione dei valori di cortisolemia salivare, può essere effettuata in corrispondenza dei picchi riscontrabili in quattro fasce orarie giornaliere alle ore 7-13-17e 23, offrendoci la possibilità di dare una valutazione e grazie ad essa motivazione di tutta quella sintomatologia estremamente variegata in cui tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo ritrovati ad incappare: depressione, disbiosi, allergie/intolleranze, sindrome della stanchezza cronica, diabete/insulino resistenza, ipertensione, osteoporosi, sindrome metabolica, ansia, acidosi metabolica, stipsi, stress ossidativo…..persino lo sportivo attento alla performance dovrebbe monitorarlo con scrupolo per prevenire infortuni, superallenamento o scarsa competitività.

Nel tempo elevati livelli di cortisolo non sono altro che la risposta di adattamento del nostro organismo ad una condizione di stress proveniente dall’ambiente esterno e quindi una chiara relazione di causa-effetto grazie al legame indissolubile esistente tra lo stress e i livelli di cortisolo: all’aumentare del primo, sale il secondo; al protrarsi dello stress, i livelli di cortisolo tendono a diminuire con una tempistica differente per ognuno di noi, generando la condizione peggiore, cioè quella di esaurimento surrenalico.

All’ipercortisolemia sono sempre associate due condizioni base: acidosi metabolica e iperglicemia.Nel primo caso occorre riflettere su come minuscole variazioni di ph intestinale, possano produrre importanti alterazioni nella composizione del microbiota (flora batterica).

Nel secondo caso invece, va sottolineato che le variazioni, anche se minime, di ph intestinale rappresentino un evidente fattore di rischio in relazione all’insulino resistenza prima e a lungo andare al diabete di tipo II, soprattutto in soggetti che presentano un patrimonio genetico a rischio.

Infine, ricordando sempre che “Chi non conosce il cibo non può capire le malattie dell’uomo” (Ippocrate di Koos), va sottolineato come anche in questo caso le abitudini alimentari rappresentino un fattore fondamentale nel determinare i valori del cortisolo: una dieta ricca di proteine animali è in grado di produrre un suo innalzamento, così come una dieta ricca di zuccheri semplici ne produce una brusca variazione verso l’alto, a seguito dell’ipoglicemia indotta dalla risposta insulinica.

Insomma, ancora una volta, siamo di fronte ad un parametro di vecchia data, il cui significato si è ormai solidificato nel tempo al punto dal vedere sciamare interesse a riguardo e di conseguenza la considerazione da parte degli operatori sanitari. Appunto uno di quei casi che come diceva lo stesso Selye: “Ciò che frena la nostra ricerca non è ciò che non sappiamo o la mancanza di strumenti per investigare, piuttosto ciò che sappiamo e che non mettiamo in discussione”.

 



December 10, 2014 Newsletter

Se la salute vien mangiando,allora iniziamo dalla prostata con una corretta alimentazione e una giusta prevenzione.

La prostata è una ghiandola con secrezione esterna situata all’incrocio delle vie seminali con le vie urinarie, in stretto rapporto anatomico con il retto, la vescica urinaria e principalmente con le vescicole seminali situate lateralmente, vescicole che rappresentano il principale “serbatoio” del liquido seminale.

Il ruolo della prostata e delle vescicole seminali è quello di secernere la parte liquida dello sperma che serve a veicolare, a nutrire e ad aumentare la possibilità di sopravvivenza degli spermatozoi.

In più, la ghiandola prostatica gioca un ruolo protettivo nei confronti del tratto urogenitale dalle infezioni ed altre aggressioni, è una specie di “filtro” del carrefour uro-seminale che “pulisce” i liquidi che passano, cioè sperma e urine.

Gli agenti infettivi possono arrivare alla prostata e quindi alle vescicole seminali per via ascendente uretrale (rapporti sessuali, piscine, ecc) e per via linfatica dagli organi adiacenti (retto, ecc).

Una volta superata la sua capacità di difesa, si può arrivare a infiammazioni/infezioni della prostata e delle vescicole seminali (prostatite, prostato-vescicolite) che influiscono sia sulla fertilità che sull’attività sessuale.

Le conseguenze di una prostata infiammata possono riflettersi negativamente sulla vita sessuale maschile, dal dolore durante i rapporti all’eiaculazione precoce.

Cosa provoca il cancro alla prostata?

Molti fattori possono influenzare la salute della ghiandola prostatica, tra questi non per ultimo un’attenzione particolare è riservata all’alimentazione. L’esposizione a diverse tossine ambientali, lo stress, l’ereditarietà, l’assetto ormonale sono tutti fattori influenzanti il benessere della prostata.

Sottoporsi a screening urologici: controllare il PSA ( attraverso un prelievo di sangue ) negli uomini sopra i 40 anni, sottoporsi ad una visita urologica, eventuale ecografia trans rettale e nei casi dubbi o per confermare sospetti, biopsia della ghiandola.

Da poco siamo in grado di effettuare un test genetico che ci aiuta a capire se e quanto siamo predisposti a sviluppare un tumore prostatico. Attraverso un semplice prelievo di cellule della mucosa orale, grazie ad uno spazzolino dedicato, siamo in grado di analizzare le sequenze del DNA in grado di generare anomalie potenziali per lo sviluppo del tumore della prostata.

Inizialmente si forma un’ipertrofia prostatica che in genere è benigna, l’ingrossamento della ghiandola porta disturbi nella minzione con difficoltà nel primo getto e comunque nel caso in cui la situazione si evolva, un tumore ha bisogno di parecchi anni per formarsi.

L’alimentazione, tanto a lungo ignorata dalla moderna medicina, è stata finalmente riconosciuta come una delle cause primarie di cancro alla prostata nel 1982, un rapporto del National Research Council ha messo in evidenza lo stretto rapporto tra abitudini alimentari e cancro al seno, colon e prostata.

La prostata si può mantenere sana evitando cibi tipo spezie, fritti, condimenti piccanti ecc probabili cause di un’irritazione intestinale che si trasmette alla prostata, una delle possibilità per prevenire ciò è l’attività fisica, dato l’utile ruolo svolto dall’attività muscolare nell’evitare la stasi sanguigna che favorisce l’infiammazione.

Un altro fattore importantissimo che incide sullo stato di salute della prostata sono le intolleranze alimentari.

Le intolleranze alimentari sono una specie di allergie mediate non dalle immunoglobuline E (IgE) ma dal sistema immunitario difensivo o innato rappresentato dai Granulociti Neutrofili ma a differenza delle allergie sono tardive, interne e cumulative. Le intolleranze ai vari alimenti creano un effetto di tipo infiammatorio a livello della mucosa intestinale, infiammazione che comporta la vasodilatazione e quindi l’apertura delle “porte” d’uscita dei germi (E. coli, Enterococcus fecali, ecc) dal retto e il passaggio di questi germi alla prostata dove diventano molto virulenti, non trattandosi del loro habitat normale e non avendo la prostata sviluppato i sistemi di difesa contro germi non abituali.

Il risultato è un’infiammazione della prostata e delle vescicole seminali nei pazienti intolleranti con tutte le conseguenze riportate sopra.

Da sottolineare che la maggior parte delle infiammazioni prostato-vescicolari sono asintomatiche quindi vengono scoperte solo quando il paziente si rivolge al medico per problemi di infertilità, eiaculazione precoce, deficit erettile di mantenimento, sintomatologia urinaria e/o eiaculatoria ecc.

La prostata  rappresenta quindi un organo centrale dell’apparato genito-urinario con implicazioni sia sulla fertilità che sulla sessualità dell’uomo e nonostante il parere comune che le patologie prostatiche siano una prerogativa delle persone anziane, i giovani sono più suscettibili alle patologie infettive in quanto più attivi sessualmente. Tra i fattori che influiscono sulla salute della prostata, di sicuro le intolleranze alimentari si trovano ai primi posti.

L’alimentazione: vanno evitati cibi che possono irritare le vie urinarie come gli insaccati, i fritti e cibi troppo piccanti o speziati. Sono da bandire le bevande alcoliche, mentre si possono consumare con moderazione le bevande gassate.

Alcuni cibi protettivi per la salute delle prostata sono : melograno, frutti di bosco, melone, papaia, mango, radice di zenzero  e tutti i frutti della stagione  estiva, utili per la salute non solo prostatica ma di tutto l’organismo.  Anche alcuni carotenoidi, in particolare il licopene contenuto  soprattutto nei pomodori (specie se consumati cotti), sono protettivi. I cereali, noci e soia  sono altri fattori dietetici con proprietà preventive nei confronti del cancro prostatico probabilmente per via del loro alto contenuto di fitoestrogeni. Anche i famosi acidi grassi della serie Omega 3/6 sono benefici, poiché mantengono attiva e in salute la ghiandola.

Le proteine vegetali infine risultano avere un effetto protettivo  modulando la produzione  dell’insulina e di IGF-I (Insulin-licancroe Growth  Factor) caratterizzato da una potente attività carcinogena. Non per nulla  questo fattore risulta essere presente in livelli significativamente più  bassi nei vegani, rispetto ai consumatori di prodotti animali (vegetariani  inclusi).
Una moderata e regolare attività fisica è invece consigliata per una buona ripresa e un pronto recupero dell’organismo.

Esistono comunque numerosi studi in base ai quali si può sostenere che i grassi saturi (essenzialmente di origine animale) aumentino il rischio di questa patologia e diminuiscano le probabilità di sopravvivenza del paziente già colpito da tumore. La  dieta ipercalorica e l’obesità sono stati associati ad un aumento dell’incidenza di cancro prostatico, così come la correlazione tra il consumo di latte e la possibilità di formazioni tumorali definita da oltre 10 anni.

Recentemente si è visto aumentare il rischio del 50% nei forti consumatori di latticini e secondo alcune ricerche sarebbe la frazione non-grassa del latte, a causa del contenuto di Calcio, più che i grassi saturi del latte ad essere il fattore responsabile dell’incremento. La caseina presente nei prodotti lattiero-caseari, aumenta il rischio di sviluppare il cancro prostatico, se consumata in maniera costante per tutta la vita.

Sebbene alcuni cibi animali quali i latticini contengano vitamina D, la loro assunzione non risulta protettiva a causa della contemporanea introduzione di Calcio legato alle proteine animali, difficili da assorbire da parte dell’organismo  che di conseguenza va incontro ad una carenza di Vitamina D per consumo e incapacità a trattenerla.      



October 17, 2014 Newsletter

La stagione autunnale sottopone a duro stress il sistema immunitario. Il cambio di temperatura influenza negativamente le difese, e ci ammaliamo più facilmente. Sindrome influenzale, raffreddori, faringiti e bronchiti sono pronti a far capolino. Come possiamo difenderci, in modo naturale senza ricorrere a terapie aggressive e cicli di antibiotici?

I cibi di stagione contengono le sostanze antiossidanti, minerali e vitamine necessarie per mantenere attivo il sistema difensivo. Uva, Frutta secca, verdura di stagione, sono ottimi alleati.

Rafforzare le difese e aumentare il sistema immunitario sono queste le richieste del momento. Ma come? Prima di tutto bisogna porre molta attenzione agli alimenti che indeboliscono le difese: cibi troppo raffinati, condimenti carichi di grassi animali, zuccheri e dolci indeboliscono le difese.

Fare attenzione all’intestino: la salute del colon è fondamentale, dato che la maggior parte delle cellule deputate a difenderci sono prodotte proprio in quella sede.

Il benessere intestinale rappresenta l’obiettivo da mantenere, per avere un sistema immune, competente, attivo a capace di far fronte alle continue “aggressioni” da parte di virus e batteri, tipici della stagione. La qualità degli alimenti che mangiamo influenzerà la qualità della produzione di anticorpi. Sembra banale, ma è di fondamentale importanza.

La flora batterica intestinale se ben rappresentata e in equilibrio (eubiosi) sarà in grado di mantenere alto il livello qualitativo e quantitativo degli anticorpi. Una flora batterica alterata (disbiosi) da cause diverse, alimentazione sregolata, assunzione di cibi non di stagione, terapie antibiotiche massicce, alcune patologie, influenzerà in maniera negativa la produzione di anticorpi. Come fare per sapere se la propria flora batterica è nella norma? Un semplice test delle urine è in grado di scoprire l’alterazione dei batteri intestinali (disbiosi test) e consente di intervenire in tempo, con terapie mirate al ripristino dell’eubiosi intestinale. La flora batterica agisce un pò come una barriera sulle mucose, impedendo l’aggressione dei batteri nemici, favorendone cosi la loro eliminazione.

Il disbiosi test rivela la presenza di indicano e/o scatolo, derivanti dalla produzione di batteri alterati intestinali.

La produzione di sostanze patogene da parte di batteri cattivi nell’intestino può modulare in senso negativo la produzione di anticorpi e abbassare di conseguenza le difese immunitarie.

Una delle tante cause di disbiosi è rappresentata dalle intolleranze alimentari. Una dieta basata su alimenti poco graditi per il nostro fisico influenzerà le difese immunitarie e premetterà lo sviluppo di batteri patogeni intestinali. Il test per scoprire una possibile intolleranza alimentare è il test ALCAT, attraverso un prelievo di sangue venoso e un’apparecchiatura dedicata, il test ALCAT è in grado di determinare gli alimenti che creano intolleranza e che influenzano la salute non solo intestinale ma di tutto l’organismo.

Un intestino in salute, rappresenta un primo passo per mantenere lo stato di benessere globale dell’organismo.

 



September 24, 2014 Newsletter

Dolcificano i cibi ma senza le calorie del saccarosio. Ma i dolcificanti artificiali (aspartame, saccarina, sucralosio) più che prevenire disordini metabolici quali intolleranza al glucosio e diabete, potrebbero addirittura favorirne la comparsa o peggiorarne i sintomi. È quanto suggeriscono le recenti ricerca di scienziati, pubblicate su Nature. In effetti, riferiscono i ricercatori, la relazione tra uso di dolcificanti e disordini del metabolismo sono strettamente legate.

Visto il loro ridotto (e in alcuni casi assente) contenuto calorico, i dolcificanti artificiali vengono impiegati in una grande varietà di cibi – dai dolci alle bevande light – e consigliati a chi desidera mantenersi in forma, o a chi soffre di intolleranza al glucosio (elevati livelli di glucosio nel sangue) e diabete di tipo 2.

Ma sebbene vengano considerati benefici e consigliabili a causa del loro ridotto contenuto calorico, scrivono i ricercatori, non vi sono dati scientifici certi che avvalorino la sicurezza e l’efficacia di questi composti. Per questo il team guidato da Eran Elinav del Weizmann Institute of Science (Israele) ha deciso di studiare che tipo di effetti hanno questi composti sulla composizione e funzione del microbioma intestinale di topi ed esseri umani, e quali conseguenze sul metabolismo glucidico (zuccheri).

Per farlo i ricercatori hanno alimentato dei topi con acqua addizionata di diversi dolcificanti (quali aspartame, saccarina e sucralosio) e osservato che effetto questo avesse sul loro metabolismo rispetto a topi che bevevano solo acqua o acqua addizionata di zucchero (saccarosio) o glucosio.

Dopo circa 11 settimane gli scienziati hanno visto che gli animali che avevano ricevuto i dolcificanti sviluppavano una marcata intolleranza al glucosio rispetto a quelli che invece avevano bevuto acqua zuccherata tradizionalmente. Un effetto questo mediato dalla popolazione batterica, spiegano gli scienziati: quando infatti i topi ricevevano degli antibiotici in grado di diminuire la flora microbica, gli effetti derivanti dall’aggiunta dei dolcificanti sparivano.

I dolcificanti modificavano anche la composizione del microbioma intestinale nei topi, così come la loro funzionalità (per esempio aumentando le capacità di degradazione dei carboidrati negli animali che avevano consumato i dolcificanti).

Risultati simili a quelli visti nei topi sono poi stati osservati anche sugli essere umani: in soggetti che non consumavano solitamente dolcificanti, una volta sottoposti a regime dietetico ad alto contenuto di queste sostanze, dopo appena quattro giorni si registravano alti livelli di glucosio nel loro sangue.

Il test ALCAT per al ricerca di intolleranza alimentari a zuccheri e dolcificanti, può aiutarci a scegliere in anticipo il tipo di integrazione di zuccheri nella dieta. Un aiuto ulteriore può essere fornito dal test genetico sulla ricerca della predisposizione al diabete tipo 2 e resistenza insulinica. Il profilo del risultato darà indicazioni nutrizionali per prevenire il diabete e le condizioni di alterato metabolismo degli zuccheri.

Il consumo di dolcificanti piuttosto che aiutare a tenere sotto controllo anomalie metaboliche potrebbe favorirne la comparsa agendo sulle popolazioni microbiche dell’intestino.

 



August 1, 2014 Newsletter

La tiroide è una delle principali ghiandole endocrine (produttrici di ormoni) che svolge un ruolo fondamentale nel controllo delle cellule e dei vari tessuti dell’organismo, con una forte influenza sulle molteplici funzioni corporee (peso corporeo, colesterolo, battito cardiaco, vista, massa muscolare, ciclo mestruale, stato mentale, cute e capelli).

La patologia più comune della tiroide è l’ipotiroidismo, la ridotta funzionalità della ghiandola che si ripercuote sulla riduzione della produzione di energia da parte delle cellule, con conseguente riduzione dell’attività metabolica. In pratica, l’organismo rallenta la produzione di ormoni e quindi il consumo di energia. Le donne sono più colpite rispetto agli uomini, con un rapporto che può arrivare a 5 donne su 1 uomo colpito. I sintomi più comuni, che passano spesso inosservati, sono:
stanchezza, freddolosità, letargia, aumento di peso, capelli secchi e sfibrati, pelle secca e ipotonica, etc.

La condizione opposta è l’ipertiroidismo, ossia un aumento delle produzione di ormoni tiroidei con conseguente aumento della produzione di energia, noto con il nome di morbo di Graves-Basedow.
Spesso è di origine auto immune, con produzione di anticorpi rivolti contro il TSH, che impediscono il normale funzionamento della ghiandola. Tra i principali sintomi vi sono: tremore di tutto il corpo, perdita di peso inspiegabile, sudorazione abbondante, insonnia, agitazione e irrequietezza, tachicardia (battito accelerato del cuore) ipertensione.

La diagnosi è molto agevole potendo misurare i valori di FT3 e FT4, TSH-r, e altri parametri correlati alla funzione tiroidea.

L’alimentazione riveste un ruolo importantissimo in caso di alterazione della tiroide. In caso di ipotiroidismo, ad esempio, è necessario ridurre i cibi ad alto contenuto di grassi idrogenati: burro, margarine e oli vegetali di origine non nota (diversi dall’ollio di oliva). Evitare le carenze di minerali fondamentali: ferro magnesio selenio Zinco, Iodio; le vitamine necessarie per un corretto funzionamento sono la Vit A, B6, B12, C, D, E. Chi soffre di ipertiroidismo dovrà fare attenzione al sale iodato. Il sale in generale va usato con parsimonia, verificando anche a quello contenuto nei prodotti alimentari industriali (cracker, patatine, insaccati). Si sconsigliano anche tutte le sostanze eccitanti il sistema nervoso: caffeina, cola, bevande energetiche, un eccesso di proteine animali.

Anche le intolleranze alimentari incidono sulla funzione tiroidea. Il test ALCAT per la diagnosi delle intolleranze identifica gli alimenti da non introdurre nella dieta, perché potenziali competitori con gli ormoni tiroidei, specifici e individuali.

Le indicazioni personalizzate del nutrizionista, consentono di stabilire una corretta alimentazione mirata a correggere naturalmente un iniziale squilibrio metabolico, e le conseguenze del caso.



March 26, 2014 Newsletter

Un’alimentazione molto ricca di cibi fritti aumenta il rischio di obesità, ma anche la predisposizione genetica gioca un ruolo di primo piano. Lo affermano, nella rivista British medical journal Qibin Qi, i ricercatori della Harvard school of public health e del Brigham and women’s hospital e Harvard medical school a Boston in seguito allo studio condotto per valutare se ci fosse un legame tra consumo di cibi fritti e predisposizione genetica nel determinare l’indice di massa corporea.

«Oggi è noto che uno stile di vita poco sano porta all’aumento del peso corporeo, ma sembra anche che gli individui rispondano in modo diverso agli stimoli obesogenici ambientali in base al loro background genetico.
Oggi, sappiamo molto bene come si correlano le interazioni tra geni e fattori legati alla dieta e allo stile di vita nel determinare l’obesità. E per cercare di dimostrare questa ipotesi i ricercatori statunitensi hanno coinvolto oltre 37.000 persone – sia uomini sia donne – in uno studio basato su questionari alimentari che valutavano il consumo di cibo fritto e su un particolare indice di rischio genetico che misurava la predisposizione all’obesità.

Le persone che hanno preso parte allo studio sono state suddivise in tre categorie in base al loro consumo abituale di cibi fritti (meno di una volta a settimana, da una a tre volte a settimana e più di quattro volte a settimana), mentre per il rischio genetico è stato assegnato un punteggio compreso tra 0 e 64 in base a 32 varianti di SNPs – polimorfismi a singolo nucleotide – associati all’obesità. «Il primo dato è che le persone con un rischio più alto avevano un indice di massa corporea maggiore e lo stesso succedeva a chi assumeva le più alte quantità di fritto».

E andando più a fondo si osserva che, per chi mangia cibi fritti 4 o più volte a settimana, l’effetto negativo della dieta poco sana sull’aumento di peso è doppio se il rischio genetico è alto rispetto a quando tale rischio è basso.
«In pratica la genetica influenza l’effetto di una dieta errata».

Come spiegano Qi e colleghi, lo studio sottolinea l’importanza di ridurre i cibi fritti per prevenire l’obesità, soprattutto nelle persone geneticamente predisposte. Lo studio della genetica, in particolare la Nutrigenomica, ci aiuta nel capire chi ha maggiori probabilità di andare incontro a patologie legate all’alimentazione e come porvi rimedio.
La Nutrigenomica ci aiuta ad individuare le persone maggiormente a rischio di malattie legate al metabolismo degli zuccheri, dei grassi animali, all’alcol, i soggetti sensibili al glutine o predisposti alla celiachia, al lattosio. Il diabete tipo due, difetti del controllo dello stress ossidativo, la predisposizione all’ipertensione su base metabolica e altro ancora.

La prevenzione nutrizionale ci aiuta a ridurre il numero dei malati per diabete e patologie cardiache, previsti nei prossimi venti anni.

BMJ 2014; 348 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.g1610
BMJ 2014; 348 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.g1900



February 18, 2014 Newsletter

Parlare di diabete, è importante sottolinearlo, significa riferirsi ad una patologia diffusissima in tutto il mondo occidentale, si tratta in ultima analisi di una malattia metabolica caratterizzata da un’alterazione dei livelli di glicemia nel sangue; nella sua forma più comune (il diabete mellito) inoltre, il paziente presenta grandi quantità di zucchero nelle urine.

Ne esistono di due tipi:

  • Diabete di tipo I: o diabete autoimmune, caratterizzato dalla distruzione delle cellule pancreatiche deputate alla produzione di insulina (Isole di Langerhans).
  • Diabete di tipo II (forma in assoluto predominante): o diabete familiare non autoimmune, caratterizzato da insulino-resistenza, dalla difficoltà cioè dell’insulina di interagire positivamente con i suoi recettori, impedendo quindi al glucosio di penetrare nelle cellule per poter essere utilizzato come fonte primaria di energia.

Riflettiamo su qualche dato ufficiale.

ü  Negli USA 1/3 un terzo degli adulti dai 20 anni in su è obeso e la stessa tendenza si evidenzia tra i bambini di 2 anni (National Center for Health Statistics, Obesity still on the rise, new data show. The U.S. Department of Health and Human Services News Release, 10 ottobre 2003, Washington D.C., 2002). La correlazione tra obesità e diabete è ormai considerata un dato di fatto dalla scienza ufficiale.

ü  Tra i 30enni americani il diabete è aumentato del 70% in meno di 10 anni: si preannuncia una catastrofe sanitaria (Mokdad, Ford, Bowman et al., Diabetes trends in the USA: 1990-1998, Diabetes Care, vol 23, 2000, pp. 1278-1283).

ü  Conseguenze del diabete: cardiopatia ed ictus, cecità, malattie renali, disturbi del sistema nervoso, patologie dentali, amputazione arti (Centers fo Disease Control and Prevention, National Diabetes Fact Sheet: National Estimates and General Information on Diabetes in US, Revised Edition, Center for Disease Control and Prevention, GA, 1998).

ü  Costo annuale del diabete in USA: 98 miliardi di dollari (American Diabetes Association, Economic consequences of diabetes mellitus in the US in 1997, Diabetes Care, vol. 21, 1998, pp. 296-309).

Da queste poche righe siamo in grado di affermare senza poter essere smentiti che il diabete rappresenta una minaccia per la salute di assoluto impatto sui sistemi sanitari internazionali delle società occidentali, sia in termini di costi da sostenere che di patologie ad esso correlate.

Se da un lato la terapia farmacologica spesso è uno strumento insostituibile quando la patologia è ormai conclamata, dall’altro moltissimo si può e si deve fare per prevenire lo svilupparsi di tale nemico della nostra salute. Una dieta sana, basata su frutta e verdura fresche (e possibilmente di stagione), quantità limitate di proteine animali, regolare attività fisica, consumo limitatissimo di zuccheri semplici unitamente ad una costante assunzione di carboidrati integrali e fibre, contribuiscono a difenderci dallo svilupparsi di questa vera e propria epidemia. La percentuale delle persone che hanno una intolleranza agli zuccheri, è in aumento.

Ancora più importante, sempre in termini preventivi, è la valutazione su base genetica dell’eventuale maggiore suscettibilità personale nel contrarre tale patologia. Attualmente la scienza è in grado, attraverso l’analisi del nostro DNA, di stabilire quanto il nostro organismo sia predisposto a sviluppare il diabete, consentendoci di utilizzare una strategia preventiva corretta e personalizzata in termini di dieta, esami clinici, e stile di vita. L’essenza stessa della medicina anti-aging: vivere a lungo attraverso un invecchiamento che garantisca un’eccellente qualità della vita, evitando nel contempo di sviluppare le patologie più pericolose.

Dott. Orlandoni Daniele – Farmacologo – Diploma in medicina anti aging – Consulente in medicina anti invecchiamento e prevenzione presso I.M.Bio – Milano

 



September 30, 2013 Newsletter

La Paleo Diet è una dieta che si basa su un principio molto semplice, ma altrettanto efficace: la comunanza dell’uomo moderno con le popolazioni del Paleolitico.

Dalle analisi del DNA è, infatti, emerso che gli essere umani rispetto ai loro antenati di 40.000 anni fa non sono cambiati quasi per nulla. Sulla base di questo principio si è osservata l’alimentazione dei nostri più antichi predecessori, che non avevano ancora scoperto l’agricoltura e la successiva elaborazione dei cibi.

In pratica i nostri antenati:

  • Non mangiavano latticini
  • Consumavano un solo zucchero raffinato: il miele
  • Si nutrivano di animali selvatici magri e quindi con un’alimentazione più proteica rispetto alla nostra
  • I carboidrati che assumevano venivano tutti da frutta e verdura con un’assunzione di fibre più alta (quindi non è vero che la PaleoDiet è una dieta esclusivamente proteica.)
  • I grassi che consumavano erano grassi “sani” (mono insaturi, polinsaturi e omega 3) e non quelli dannosi (saturi.)

Sebbene la Paleo Diet risulti essere il regime alimentare più idoneo sia per il dimagrimento (perdita di massa grassa e non magra) sia per una vita più lunga e salutare, anche con questo tipo dieta è possibile che si manifestino disturbi dovuti alle intolleranze alimentari.

Le intolleranze alimentari, definibili sinteticamente come reazioni negative del sistema immunitario nei confronti di alcuni alimenti o additivi presenti in essi, si manifestano con una sintomatologia molto varia:

  • ritenzione idrica
  • stanchezza e debolezza muscolare
  • alterazioni del metabolismo (sovrappeso e obesità)
  • problemi all’apparato gastroenterico
  • problemi all’apparato muscolo scheletrico
  • problemi all’apparato respiratorio.

Il metodo più affidabile per diagnosticarle è Alcat Test, un test di laboratorio standardizzato che si effettua tramite prelievo venoso e grazie al quale è possibile individuare gli alimenti da escludere e/o sostituire in un determinato piano alimentare.

Per citare un esempio concreto: se la mia dieta prevede come frutta le pere e come verdura gli spinaci, dovrei sicuramente sostituire questi alimenti ad alto contenuto di Nickel nel caso in cui, in seguito ai risultati ottenuti con ALCAT TEST, scoprissi di essere intollerante al Nickel.

Per allenarsi con un Personal trainer è importante impostare un piano alimentare efficace, come quello previsto dalla Paleo Diet (prescritto da un dietologo), e tenere in considerazione che, se la massa grassa rimane invariata e nel soggetto allenato non si riduce la presenza di ritenzione idrica, è senz’altro opportuno modificare la dieta verificando la presenza di eventuali intolleranze alimentari.

In sintesi, un buon personal trainer deve, oltre a indirizzare il proprio cliente verso un regime alimentare corretto, osservare l’andamento del dimagrimento e cercare di capire quali possano essere le cause della tanto temuta fase “plateau” della dieta (fase in cui la dieta non ha effetti dimagranti). In questo caso, è buona norma indirizzare l’allievo verso un test completo per le intolleranze alimentari come Alca test, strumento che consente di programmare un trattamento nutrizionale personalizzato per migliorare il più possibile le problematiche legate alle intolleranze.

a cura di Livio Boscarini & Daniele Albertini
Personal Trainers amministratori di Be.Come Personal Training



December 1, 2012 Newsletter

La tiroide è una ghiandola endocrina, posta alla base del collo, che insieme ad altre ghiandole e cellule, costituisce il sistema endocrino (ovaie, testicoli, ipofisi, epifisi, ghiandole surrenali, pancreas).

Le ghiandole endocrine producono e riversano nel circolo sanguigno gli ormoni, molecole o “messaggeri chimici” in grado di influenzare e coordinare le diverse attività dell’organismo. Gli ormoni trasmettono segnali tra una parte e l’altra del corpo, e una volta giunti a destinazione agiscono sulla cellula bersaglio, che darà inizio a una particolare attività funzionale.

La tiroide influenza gran parte dell’organismo attraverso la produzione di due ormoni che controllano il metabolismo, ossia la trasformazione del cibo che mangiamo in energia: gli ormoni tri-iodorironina (T3) e gli ormoni Tiroxina (T4).

Per la sintesi di questi ormoni è indispensabile il buon funzionamento dell’ormone ipofisario TSH, un corretto apporto di iodio con la dieta, la presenza dell’aminoacido tirosina, di alcuni enzimi (tireoperossidasi TPO) e del selenio. La produzione di ormoni attivi tiroidei è legata anche alla presenza delle vitamine D, C, E, A.

L’alterazione di questo equilibrio porta a due opposte condizioni patologiche: ipotiroidismo o ipertiroidismo.

L’ipotiroidismo si manifesta in caso di ridotto funzionamento della tiroide che non è in grado di produrre la giusta quantità di ormoni, con conseguente riduzione dell’attività metabolica. Si tratta della patologia tiroidea più diffusa, che colpisce soprattutto le donne (con un rapporto donne e uomini che può essere 5:1).

I sintomi più comuni, che spesso passano inosservati, sono:
stanchezza, freddolosità, letargia, aumento di peso, capelli secchi e sfibrati, pelle secca e ipotonica, caduta dei capelli, stitichezza, mestruazioni più abbondanti, depressione.

L’ipertiroidismo è la condizione opposta: aumento della produzione di ormoni tiroidei, con conseguente aumento della produzione di energia (morbo di Graves-Basedow).
Spesso è di origine auto immune, con produzione di anticorpi rivolti contro il TSH che impediscono il normale funzionamento della ghiandola.
I principali sintomi sono: tremore di tutto il corpo, perdita di peso inspiegabile, sudorazione abbondante, insonnia, agitazione e irrequietezza, tachicardia (battito accelerato del cuore) e ipertensione.

Le patologie della tiroide possono essere diagnosticate in maniera relativamente semplice, vista l’accessibilità clinica della ghiandola stessa, e curate anche grazie a una dieta corretta.

L’alimentazione assume, infatti, un ruolo molto importante in caso di alterazione della tiroide.
In presenza d’ipotiroidismo è necessario ridurre i cibi ad alto contenuto di grassi idrogenati, burro margarine e oil vegetali di origine non nota (diversi dall’olio di oliva), e prevenire la mancanza di minerali fondamentali: ferro, magnesio, selenio Zinco, Iodio; Le vitamine necessarie per un corretto funzionamento sono le seguenti: A, B6, B12, C, D, E.

È consigliato l’uso di sale iodato, mentre sono da evitare le brassicacee (cavolfiore, broccoli e tutta
la famiglia delle crucifere), note per la loro caratteristica di ridurre lo iodio disponibile.

In caso d’ipertiroidismo è bene eliminare tutte le sostanze eccitanti il sistema nervoso: caffeina, cola, bevande energetiche, e un eccesso di proteine animali.

È molto importante, inoltre, per ridurre lo stato infiammatorio generale dell’organismo, valutare la presenza di eventuali intolleranze alimentari, che potrebbero interferire con la funzione tiroidea.
Lo strumento più indicato per la ricerca delle intolleranze alimentari è ALCAT, un test che permette di identificare gli alimenti da evitare, perché potenziali competitori degli ormoni tiroidei, specifici e individuali.

Le indicazioni personalizzate fornite dal medico e dal nutrizionista, possono aiutare a stabilire una corretta alimentazione, mirata a correggere in modo naturale, dove possibile, un iniziale squilibrio metabolico, e le conseguenze del caso.



November 30, 2012 Newsletter

La gravidanza è uno stato particolare durante il quale tutto il metabolismo della donna va incontro a profonde modificazioni. È bene quindi provvedere con un cambiamento nutrizionale in grado di fornire il corretto apporto calorico e tutti i nutrienti necessari alla mamma e alla crescita del bambino.

Durante le visite di routine, peso e bilancia sembrano essere il fulcro cruciale per gran parte di medici e ginecologi. In realtà, accanto al capitolo del controllo del peso, si apre quello sul corretto apporto di macro e micronutrienti e quello riguardante la prevenzione di sindromi allergiche e intolleranze. Per il benessere di mamma e bambino è importante quanto la donna mangia, ma è fondamentale che cosa mangia. La gestazione deve essere un momento di “educazione alimentare” e non di “restrizione”.

Data la posta in gioco, la gravidanza può essere per la donna un’ottima occasione per acquisire nuove conoscenze in ambito nutrizionale come il corretto frazionamento dei pasti durante la giornata, il corretto apporto di tutti i macronutrienti (carboidrati, proteine, fibre, lipidi) e micronutrienti (sali minerali, vitamine) e la prevenzione di allergie e intolleranze.

L’aumento ponderale in gravidanza è strettamente correlato al peso pre-gravidico e al BMI (Boby Mass Index o Indice di Massa Corporea): un BMI corretto e nella norma lascia di solito ben sperare in un aumento di peso corretto rispetto a un BMI da sottopeso o sovrappeso. Nel primo trimestre, è previsto un aumento di peso di circa 2 kg, dal secondo trimestre il controllo deve essere più oculato e non deve essere superiore ai 500g settimanali onde evitare sofferenza fetale.

In generale evitare gli alcolici e limitare i “nervini” (caffè, tè, cacao) che stimolano la contrazione muscolare e quindi anche quella uterina.

E’ bene frazionare i pasti rispettando lo spuntino di metà mattina e metà pomeriggio così da evitare pasti abbondanti che possono aggravare sintomi quali gonfiore, nausea, vomito. Sempre per gli stessi motivi è consigliato evitare cibi “pesanti” quali fritti, piatti troppo conditi, grassi animali (lardo e pancetta), dolci a base di panna e burro. Nei casi di nausea e vomito evitare piatti in brodo, preferire una colazione salata a quella dolce, prediligere le verdure cotte e condimenti a base di limone (ricordiamo che la presenza di vitamina C favorisce l’assorbimento del ferro presente negli alimenti).

È consigliata la massima igiene alimentare e un’abbondante idratazione (2L di acqua al giorno).

Tenere presente l’aumento del fabbisogno nutrizionale e in particolare di vitamine, calcio, potassio, ferro, fosforo e acido folico; da qui l’importanza di un’alimentazione completa. Meglio sopperire a tale fabbisogno da fonti naturali (gli alimenti) prima che dagli integratori (per quanto riguarda l’acido folico, di cui gli alimenti sono poco ricchi, è bene assumere un integratore secondo indicazione medica). Si consiglia di accompagnare i pasti principali con una buona porzione di verdura (meglio se di stagione) e di assumere due porzioni di frutta al giorno. Frutta, verdura e legumi sono ricchi in micronutrienti. Prediligere, inoltre, i cibi integrali (il pane integrale ad esempio contiene sette volte più ferro di quello bianco).

Veniamo ora all’importanza di un’alimentazione sì equilibrata ma allo stesso modo “preventiva”, come già accennato, nei confronti di allergie e intolleranze alimentari. Ad esempio, nei casi di donne particolarmente allergiche, alcuni studi riportano una minore incidenza di forme allergiche ereditarie se, durante la gravidanza, la donna ha seguito un controllo nutrizionale atto a ridurre tutti i nutrienti che potrebbero far scaturire il problema già nel neonato. Preferire quindi alimenti “anallergici” quali carni bianche, pesce, riso, latte di capra, ecc. riducendo il consumo di latte vaccino e latticini, uova e alimenti molto allergenici (fragole, pesche, frutta secca, cacao, ecc.).

La nutrizione della donna gravida deve essere sì “libera” e a suo gusto secondo le cosiddette “voglie”, ma è comunque giusto attenersi a un profilo nutrizionale molto vario così da evitare, o accentuare, intolleranze alimentari nella mamma e quindi “accumuli” nel nascituro.

Se sospettate di essere intolleranti o se semplicemente volete assicurarvi di seguire un’alimentazione corretta anche per il vostro bambino, una buona idea potrebbe essere quella di eseguire il test ALCAT per le intolleranze alimentari. In seguito, un esperto potrà indicarvi il tipo di alimentazione più idonea per voi, così da evitare spiacevoli sintomi in un momento tanto atteso! L’ALCAT Test, diffuso da più di vent’anni e validato da numerosi studi condotti presso centri di ricerca (Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, Laboratorio di Immuno-Allergologia, pubblicazioni sulla rivista ufficiale dell’European Academy of Allergology and Clinical Immunology), permette di seguire una terapia non farmacologica ma nutrizionale. Dopo una prima fase di eliminazione dei cibi risultati positivi al test, si procederà con la reintroduzione graduale e controllata di tutti gli alimenti.

In conclusione, oltre che per il rischio di aumento ponderale, il controllo dell’alimentazione della madre in gravidanza è importante per lo sviluppo del feto e per la prevenzione di allergie, intolleranze alimentari, dermatiti atopiche, bronchioliti, coliti, ecc., sintomi che possono presentarsi già dalle prime settimane di vita del bambino.

a cura della dr.ssa Jessica Barbieri, Biologa Nutrizionista, Consulente IMBIO – Istituto di Medicina Biologica Milano.


Copyright by IMBIO 2017. All rights reserved.